La notte di terrore di Briciola, cane indifeso in crisi di panico per i botti

PERUGIA – L’Umbria è terra di cacciatori e i cani da caccia sono abituati ai colpi di fucile. Non si spaventano quindi ai botti, nemmeno alla “guerra” del Capodanno che ogni anno per un insensato retaggio culturale che vorrebbe scacciare le morte e la malasorte sparando in aria (se va bene) tric e trac ed esiziali mortaretti, procura spavento, anzi terrore a quei cani che vivono tranquillamente la loro esistenza nelle cure dei propri cari “padroni”. Che magari li umanizzano sin troppo, che magari li viziano sino a “disanimalizzarli”, ma che li rendono anche veri compagni affettivi di vita. A questi padroni selvaggi della notte di Capodanno, non bastano le pur numerose testimonianze di cani che “sorvegliano” le tombe del proprio padrone, in attesa di un auspicato quanto impossibile risveglio, o non bastano le innumerevoli prove di coraggio di cui questi animali sono capaci, non basta anche la funzione sociale che svolgono nel condurre persone non vedenti o nel soccorso di persone finite sotto le macerie di un terremoto. Così, nella notte appena passata, ho dovuto assistere alla crisi di panico della mia povera cagnetta “Briciola” che, spaventatissima, tremava come una foglia al minimo accenno di petardo ed anche alle bombette scagliate a terra dagli inconsapevoli bambini. Non è bastata insomma l’ordinanza del sindaco Romizi che vietava l’uso dei “botti” per averne di fatto ragione sulle centinaia, migliaia di persone che non hanno resistito a salutare il nuovo anno con un petardo che squarciasse l’aria come una bomba. Almeno nel quartiere dove abito, qualcuno si è anche divertito a far risuonare le proprie “bombe” sotto a un porticato, facendo sì che il frastuono si moltiplicasse in intensità. Ma testimonianze di centinaia di persone che si sono assembrate incuranti delle disposizioni anti-Covid sono arrivate da tutta la regione.

Sin qui la rabbia per l’attacco di panico provocato a Briciola. Ora, scaricata l’emotività, passiamo al raziocinio. Qualche giorno fa ho letto su La Repubblica un articolo di Michele Serra che faceva riferimento alle tradizioni e alle usanze e al fatto che spesso rappresentino il motivo più importante del senso di appartenenza ad una comunità che condivide lo stesso comune sentire. Ecco, il Capodanno è in sé una grande ritualità collettiva che accomuna molti individui in quel senso di “liberazione” dal vecchio, dal passato, dall’anno appena trascorso, facendo rumore, esplodendo petardi, mortaretti e bengala per scacciarlo più lontano possibile. Soprattutto in questo 2020 appena passato che è stato straziato da migliaia di morti, di cari che non hanno neanche potuto avere il conforto dei propri familiari negli ultimi istanti di vita. Una catarsi collettiva quindi che da tempi immemori si tramanda, se non fosse che anche il tramandare usi e costumi acquistano un senso se rinnovati. Rivisitarli per aggiornarli alle nuove esigenze, alle nuove modalità del sentire condiviso. Forse è questa la differenza tra tradizione e retaggio culturale. Una tradizione meno rumorosa e più attinente anche alla sensibilità degli animali e dei migliori amici dell’uomo, soprattutto in una regione come l’Umbria dove il misticismo dei santi e la cultura laica massonica hanno spesso trovato sintesi in un clima ieratico e nell’ideale di un pacifismo universale, molto lontano dai botti e dai frastuoni che ricordano le guerre.

 

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