La strana storia di Cenerente e della sua gessaia

PERUGIA – Abitiamo i luoghi, ormai, senza conoscerli. Eppure abbiamo degli indizi interessanti sulla loro storia che semmai appaiono, semplicemente, dai loro oscuri nomi. A Nord-Ovest di Perugia c’è una piccola frazione, Cenerente, che si presta benissimo a questa esplorazione, che parte dal toponimo per incontrare una lunga storia, e le persone che se ne resero protagoniste.

Già “Cenerente” è un nome davvero strano, e probabilmente le centinaia di persone che oggi vi abitano, nella zona residenziale improvvisamente costruita, pochi anni or sono, in barba al paesaggio, alla condizione della viabilità e alla franosità dell’area, non sanno che deriva dai termini ‘cenerone’ o semplicemente ‘cenere’ coi quali si appellavano terreni grigi, a causa delle rocce calcaree e solforose originate nel triassico. Zolfo quindi, e non a caso una delle strade di Cenerente si chiama “via della Zolfara”. Ma anche gesso (e c’è anche una “via della Gessara”), tanto che sin dall’antichità, in questa zona, si estraeva questo minerale che ha sempre avuto diversi impieghi (nell’arte e nell’edilizia). Quest’estrazione, documentata nei secoli, ha profondamente mutato il paesaggio e l’orografia della valletta in mezzo alla quale sorge Cenerente.

Come scrive Andrea Motti, in una breve monografia ben documentata, “In questo contesto è risultato singolare il comportamento delle varie amministrazioni comunali di Perugia che con un’avvicendarsi di decisioni nel tempo hanno dimostrato di non conoscere quanto successo nel territorio; oltretutto non si è tenuto conto nella progettazione e nella realizzazione della discarica per inerti che l’ex gessaia di Cenerente è uno dei pochi affioramenti di depositi evaporitici di età triassica dell’Italia centrale”.

Tant’è. Non riusciamo a immaginare amministratori interessati ai depositi evaporitici, e quindi riprendiamo il filo della nostra storia.

L’estrazione del gesso a Cenerente trova il suo epilogo fra ‘800 e seconda metà del ‘900, con la fabbrica chiamata “gessara” o “gessaia” ben visibile ancora lungo la strada provinciale 170, che da San Marco di Perugia prosegue sostanzialmente in direzione del lago Trasimeno.

L’estrazione avveniva in un’area immediatamente a nord della fabbrica, a circa un centinaio di metri; la roccia veniva fatta brillare con delle mine (in epoca moderna), e il materiale portato a valle e gettato in un convogliatore dove delle potenti ganasce trituravano la pietra per poi indirizzare la polvere di gesso nell’adiacente silo attraverso un’imponente tubatura ancora ben visibile, malgrado la ruggine e l’abbandono. I camion venivano riempiti poi, per caduta, del materiale, che distribuivano in tutta la regione. Nel 1984 la fabbrica chiuse, e iniziò una lenta opera di riempimento dell’enorme voragine prodotta, con terra di riporto e materiali inerti. Infine la Comunità Montana piantumò un boschetto che ora è cresciuto, nascondendo il ricordo di quelle fatiche.

Salendo per via della Gessara, circa a metà, si vede bene sulla destra il bosco, prospicente la chiesa e la scuoletta locale. Il vostro narratore non sarebbe mai entrato in quel bosco, come la grande maggioranza dei residenti, se non fosse che il Covid impedisce troppe distrazioni e il cane, da qualche parte, bisognerà pur portarlo.

È in una di queste passeggiate che abbiamo incontrato qui il signor Massimo Bordellini, che è proprietario del boschetto dove, attraverso un sentiero di comoda percorribilità, si arriva facilmente alla fabbrica (lato opposto a quello visibile dalla strada). Il sig. Bordellini ci racconta come suo padre fosse un operaio in quella cava, con la mansione di provvedere alla dinamite e al brillamento delle cariche; ci racconta di quando era bambino, e ricorda delle difficili manovre dei camion che dovevano entrare, lungo carraie impervie, fino in fondo al cratere per raccogliere il minerale, e ogni tanto se ne ribaltava uno; ricorda il lavoro, l’officina antistante, il va e vieni dei camion che portavano il gesso ai cementifici, l’enorme buca (“una cinquantina di metri”) del convogliatore, e la successiva opera di riempimento “guardata a vista” da un custode che controllava (per quello che poteva) che i camion portassero solo materiali “ecologici”, e non approfittassero della buca per smaltire plastica o peggio. E poi il trenino, che attraversava la cava e andava su binario in direzione Monte Malbe per scaricare il terreno di estrazione dalla miniera. Il trenino… se ne trova ancora la motrice, arrugginita, abbandonata vicino all’officina della fabbrica; la mostriamo anche nella nostra galleria fotografica, un vero reperto di archeologia industriale, come tutta l’area, che – dice Bordellini, “Figurerebbe bene come monumento in mezzo a una rotonda”, e sarebbe disponibile a donarla al Comune per tale scopo.

Qui in zona sopravvivono i figli, e i nipoti, di quegli scavatori, brillatori di mine, autisti e operai che hanno dato un’impronta specifica alla zona, trasformandola. Consideriamo i tempi; consideriamo le fatiche di quel lavoro, che mine e camion a parte cavavano la pietra a mano (e i padri di costoro, decenni indietro nel tempo, anche senza dinamite e senza veicoli a motore).

Ci racconta bene quelle fatiche Massimo Bordellini, testimone di un territorio e di una storia che non ci sono più: “Io lì in quel posto ci ho imparato a camminare e a pedalare il primo triciclo – ci racconta. Sono stato un figlio di quella fabbrica con tanti padri. In quei tempi il paese era una grande famiglia, tutti pronti a dare una mano a tutti. Per scaldare le esili gambette di mia sorella, che voleva ostinatamente andare in bicicletta anche con temperature rigidissime, c’e stato chi si è tagliato le maniche della giacca per improvvisare una sorta di pantalone di fortuna.

Lì il lavoro era durissimo la mattina, in inverno, quando bisognava staccare dal ghiaccio gli attrezzi con cui iniziare a lavorare; per non parlare degli oltre 40 gradi dei mesi estivi. Pale meccaniche, camion, sono mezzi arrivati molto più tardi. Prima il minerale veniva portato in superficie con dei carrelli a forma di campana rovesciata, con un montacarichi che lavorava in verticale con tutta una serie di funi e carrucole che ricordo ancora bene.

Era una miniera – continua Bordellini – e pertanto quando guardiamo qualche film ambientato in luoghi simili, molte immagini sono calzanti. I segni del fatica e dei frequenti infortuni si leggevano sulle mani e sugli arti di chi ci lavorava, come un libro stampato.

I tempi erano difficili, sbarcare il lunario era quasi un sogno, ma le assicuro che quelle persone riuscivano a cantare, a sorridere e vivere la loro condizione con grande dignità e serenità. Ben lungi dal nostro modo di interpretare la vita.”

La riflessione finale, nostra, che non si vorrebbe retorica, è la seguente: siamo intrappolati nel presente, e non ricordiamo la storia, non la cerchiamo, non la valutiamo, anche se noi siamo, semplicemente, l’esito di coloro che furono. E non consideriamo i luoghi; ormai la maggior parte di noi vive i non luoghi, ognuno a casa sua a vedere la TV, cambiare la camicia, dormire, mangiare, per poi andare altrove a fare cose. Il legame dell’Uomo col suo Territorio è generalmente spezzato. Non abbiamo più una Storia, non abbiamo un Luogo. Viviamo sospesi in un limbo che cerca di evitare i significati, per loro natura sempre pericolosi, sempre portatori di domande.

Abbiamo consultato:

Andrea Motti, La località di Cenerente, esempio di toponimo geologico;

Marco Menichetti, Le aree carsiche gessose d’Italia – Umbria;

Claudio Maccherani, La “Gessara”.

 

Claudio Bezzi

Redazione Vivo Umbria: