Matteo Garrone allo Zenith: epica contemporanea da raccontare (e capire) a scuola

PERUGIA – In sala scorrono i titoli di coda e appena oltre le tende all’ingresso Matteo Garrone è fermo davanti alla bacheca dello Zenith. Andrea Fioravanti gli indica tra le vecchie foto quelle in cui si riconosce Garrone da ragazzo, in maglione e riccioli scuri. Sono le foto di quando veniva a presentare L’imbalsamatore o Primo amore, vent’anni fa. “A sentirmi non c’era nessuno”, dice lui, ma non è vero. Certo, stavolta è tutta un’altra cosa. La giornata che il cinema di via Bonfigli ha dedicato al regista romano e al suo Io capitano è memorabile. Quattro proiezioni sold out nelle due sale, la prima alle sei del pomeriggio, l’ultima alle nove e mezza, col buio, cinquecento spettatori in totale. Il film d’altronde va a gonfie vele, è uscito da un mese e non ha mai saltato un giorno di programmazione. In questa domenica d’ottobre caldissima Garrone è tornato allo Zenith non tanto per spingerlo quanto per celebrarne il successo, per ratificarne di fronte al pubblico di Perugia la grandezza. E quando è il momento di sfilare in platea per piazzarsi ai piedi dello schermo il benvenuto è una sorta di acclamazione. Applaudono tutti, e tutti piano piano si alzano in piedi. Cominciano quelli delle ultime file, poi l’onda si alza e gli arriva di fronte, sempre più fragorosa. Cos’altro c’è da aggiungere, subito dopo aver visto un film così? Eppure adesso il regista è qui, Matteo Garrone è qui. E sul suo film ha molte cose da dire.

 

Andrea Fioravanti è il Virgilio dello Zenith. In questo cinema negli anni è passato di tutto, film da Inferno e da Paradiso, parecchi da Purgatorio, e quando si tratta di parlare, di prendere a braccetto il regista o l’attore arrivati per promuovere i loro lavori, tocca sempre a lui. Conosce le ombre e gli umori della sala, riconosce le smorfie degli ospiti, sa giocare con il cronometro come una squadra di calcio navigata. Oggi gli spettano gli straordinari: due dibattiti alla fine delle due proiezioni pomeridiane, due prima delle due proiezioni serali. Garrone, prima di Perugia, si è fatto anche Narni e Spoleto, e i muscoli che sfodera davanti alla moltitudine accorsa per starlo a sentire gli servono tutti. Il cinema è un lavoro duro, è una faccenda di intelletto e di bicipiti.

Ciò che si può dire a chi ha già visto il film non è ciò che si può dire a chi il film deve ancora vederlo, e i quattro dibattiti sono molto diversi l’uno dall’altro. Garrone e Fioravanti nel loro andirivieni su e giù sulle scale esterne dello Zenith si portano dietro anche un colosso nero con addosso una casacca africana coloratissima. Si chiama Moussa, proprio come uno dei protagonisti di Io capitano, con i quali condivide un pezzo importante di storia. Anche lui è partito dal cuore dell’Africa ed è finito sulle coste di Lampedusa, ma i battiti di quel cuore vibravano in Mali e non in Senegal, e quel viaggio è cominciato più di dieci anni fa. Poi il Sahara, la Libia, il barcone. E Perugia, dove Moussa Doumbia ha messo radici, e famiglia, e ha aperto un bar africano in pieno centro. Parlerà poco, ma andando sempre dritto al punto. Garrone ad annuire, il pubblico a sovrapporre le scene del film già fatte ricordo con questa visione straordinariamente reale.

C’è un concetto su cui Garrone insiste sempre, e in effetti è il concetto chiave del film. “Non ho voluto raccontare la storia di gente che scappa dalla guerra, dalla dittatura o dalla carestia. È la storia di due giovani che vogliono esplorare il mondo, andare a vedere se riusciranno a costruirsi una vita migliore da qualche parte”. È epica contemporanea, dice Fioravanti, questi ragazzi sono i veri eroi di questi giorni, dice Garrone. Perché sono coraggiosi e temerari, e perché combattono contro l’ingiustizia di non potersi muovere liberamente per il semplice fatto di essere nati da una parte anziché da un’altra. “Io da giovane volevo andare in America. Il mio sogno era quello: l’ho fatto, poi sono tornato subito a casa. Per molti di loro il sogno è l’Europa, ed è giusto che abbiano la possibilità di provarci”. Sarebbe il caso che questa possibilità se la giochino in modo diverso, certo. Prendendo un aereo, come fa un italiano se vuole andare in America o dappertutto. Evitando di rischiare la vita a ogni passo, e di ingrassare le bande di trafficanti di esseri umani. “Anche perché di fronte alle loro motivazioni non ci sono muri o fili spinati che tengano. In un modo o nell’altro, continueranno sempre a partire”. È l’uovo di colombo, eppure non se ne esce.

Il film è un esercizio narrativo semplice e allo stesso tempo difficilissimo. Perché racconta il viaggio dei due protagonisti dall’inizio alla fine, in modo molto lineare, e lo fa sfruttando nel migliore dei modi i privilegi di una grande produzione: i luoghi giusti, la gente giusta, i tempi giusti. E una recitazione quasi interamente in wolof, una delle lingue madri dell’Africa occidentale, con qualche inserto in arabo e in francese. Un impianto neorealista con poche sfumature oniriche, “perché per loro è un viaggio anche dentro di sé”. È nella propria anima prima ancora che nella propria carne che il giovane Seydou impara a fare i conti con la morte, con l’ingiustizia e con il dolore. La rappresentazione che fa Garrone di questi movimenti è potente ed efficace. Gli spettatori gli chiedono conto di dettagli e moventi, c’è chi lo ringrazia per aver illuminato una realtà che il più delle volte resta nell’ombra. I migranti sono numeri, sono la conta dei vivi e dei morti, dei giovani e dei vecchi, delle femmine e dei maschi, dei regolari e degli irregolari. Ma il cinema sa dare un peso diverso alla realtà, e Io capitano in questo è formidabile. Garrone è poi cosciente di un fatto importantissimo: “Bene che questo film lo vediate voi. Ma soprattutto è bene che lo vedano i ragazzi delle scuole. Tra di loro ce ne sono molti che non lo avrebbero mai fatto, ma quando il film finisce qualcosa gli rimane comunque dentro. Andare a parlarne nelle scuole per me è la cosa più bella”. Ha ragione. E allo Zenith, per tutto il mese di ottobre, di scuole ne verranno molte. Tutte superiori. Hanno cominciato venerdì 6, andranno avanti per settimane. Alla fine saranno stati coinvolti ben più di mille studenti tra i quattordici e i diciotto anni. Più o meno l’età di Seydou, l’età in cui gli uomini prendono piena coscienza di sé, e imparano a capire in che modo funziona il mondo, e quale potrebbe essere il loro posto.

Foto di Federica Kacic

Giovanni Dozzini: Nato a Perugia nel 1978, è giornalista e scrittore. Ha collaborato con molte testate nazionali e locali, scrivendo di cultura e di sociale. Ha pubblicato un po’ di romanzi: i più recenti sono E Baboucar guidava la fila (Minimum Fax, 2018), con cui ha vinto l’European Union Prize for Literature, Qui dovevo stare (Fandango, 2021), premio Fulgineamente, e Il prigioniero americano (Fandango, 2023). È tra i fondatori e gli organizzatori del festival di letteratura ispanoamericana Encuentro.