Ministri a Perugia: dal singolo Scatolette al nuovo album Giuramenti

PERUGIA – Il 15 aprile i Ministri tornano (e finalmente aggiungerei) in Umbria con il concerto all’Afterlife a Perugia. Freschi del loro ultimo singolo Scatolette, uscito lo scorso 3 marzo e freschissimi di ripartenza con il loro tour in giro per i club d’Italia, ci parlano, attraverso la voce di Federico Dragogna (testi, chitarra e cori) del loro nuovo album Giuramenti in uscita il prossimo 6 maggio.

Nel nuovo singolo Scatolette, ballata dolce amara dove, per citarvi “dentro c’è un po’ di resa e di speranza”. Dalle suggestioni che arrivano e anche da quello che avete scritto, il brano ha un destinatario preciso: la musica.

Per quanto possono mai essere precisi i brani, questa è una canzone che parla di quello che è stato far musica fino ad adesso, di che cosa è successo alla cultura in Italia e parla anche senza problemi, del nostro rapportarci con difficoltà con la nuova idea di far musica oggi. Non tanto nel modo di farla, almeno non per tutti è cambiato, ma più che altro nel modo di mondo di intermediare, nel modo in cui la musica arriva dall’artista al fruitore finale, ecco questo sì, è cambiato. E tutto ciò si porta dietro un po’ di conseguenze. Oltretutto, il pezzo è del 2019 …evidentemente all’epoca eravamo già un po’ Cassandra per i due anni che sarebbero seguiti. Noi l’abbiamo fatto uscire dopo semplicemente per tutto quello che è successo nel mezzo, ma d’altra parte ci sembrava che non avesse perso significato, anzi semmai che lo riavesse acquistato.

Personalemente ho adorato il video di Scatolette perché da quelle immagini emerge davvero una richiesta di contatto con l’altro, di veri rapporti umani. Come è nata l’idea?

Anche se tutto faceva parte di un progetto e quindi avevamo già in mente di fare qualcosa che raccontasse come noi siamo Ministri, come noi abbiamo deciso di impostare questa band e quindi facendo anche tante rinunce, a trend o a marchi che ti chiedono di fare due foto…non che sia il male in terra (anche se questo quando avevamo 18 anni, a fine anni ’90 per noi era il male in terra)! L’idea del video è nata dalla necessità di fare un gesto, qualcosa di vero. Spesso fare un video vuol dire raccontare, creare una storia, fare un playback all’aperto e quindi prendere freddo (per qualche motivo si fanno sempre d’inverno i video), vuol dire finzione in fondo. E fare questa roba qui, dopo due anni, non ci entusiasmava davvero, mancava qualcosa…Volevamo fare un gesto vero, un qualcosa che (mentre prendevamo freddo) acquistasse un vero senso. Girare il nord Italia per andare a trovare i nostri fan, per abbracciarli è stato molto bello. E non era assolutamente nulla di organizzato, basta vedere qualche scena e si capisce, c’era qualcuno di loro in pigiama, quindi… Ci sono arrivati dei messaggi di grande emozione, persino da chi non ci segue o ascolta altro, anche per come finisce il video stesso.

Sulla vostra biografia di Instagram si legge musica suonata, sottolineo suonata, dal 2006. Il tour è iniziato il 31 marzo,  il giorno della fine dello stato di emergenza. Vi immaginiamo lì, pronti sui blocchi di partenza.  Cosa hanno significato per voi questi due anni di live diradati?

Confermo che come dici tu il primo concerto è stato super simbolico. Devo dire che quando avevamo programmato i concerti a novembre scorso, mai ci saremo aspettati che lo stato di emergenza sarebbe stato prolungato fino al 31 marzo. Detto ciò, i primi tre concerti sono stati qualcosa di dirompente. Noi spesso diciamo che salire sul palco significa diventare un tramite per l’energia di chi sta sotto. In questo caso è stato esattamente così. I protagonisti del concerto erano le persone che stavano sotto, super gasati; noi dovevamo incanalare questa energia. È stata un po’ come una gita scolastica dove si comprava lo zucchero filato per tutti. Incredibile. Ora mi viene da chiedermi quanto ci si metterà a riabituarsi ai concerti, a riconsiderare questa cosa come…

Normale?

Esatto, normale.

Un’abitudine, una tradizione a cui eravamo legati e che periodicamente ci dava respiro.

Assolutamente e questo senza retorica. E noi ne siamo testimoni: rispetto a come vanno le nostre vite e come sono i nostri stati d’animo durante le giornate, è raro trovare un’altra cosa, oltre ai concerti dove si è così presi bene, ben disposti rispetto a chi ci sta accanto. Noi abbiamo la fortuna di incontrare le persone in un momento splendido della loro esistenza e non ce ne sono tanti altri di momenti in cui la gente riunita è così bella. Il problema è che la musica nei live club è ancora troppo spesso dimenticata dai nostri rappresentanti politici: viene citato di tutto, dalle discoteche sul mare ai teatri di montagna tranne i locali live, ormai non è neanche una questione di una strana lotta contro un tipo di cultura, è semplicemente non considerata, non pervenuta.

Quando avete iniziato nel 2006, avete fatto con la musica una scelta di vita… secondo te è più difficile iniziare oggi o lo era prima?

Dal mio punto di vista, che sto dietro a tutta una serie di artisti giovani, ti dico che oggi è più facile ottenere un prodotto, cioè qualcosa di materiale, di presentabile. Questo sia perché c’è una maggiore diffusione dei saperi, sia per una questione di tecnologie. Quando eravamo ragazzi noi per avere un qualcosa che suonasse decentemente si faceva uno sforzo immane e la distanza tra quello che facevi tu e quello che faceva la tua band del cuore era di anni luce praticamente. Adesso questa distanza si è molto ridotta, anche artisticamente parlando. Dall’altra parte è molto più difficile restare, riuscire a passare la stagione; anche se riesci a fare qualche numero interessante è più difficile oggi, riuscire a mettere un po’ le radici. Citavi i club, quando eravamo ragazzi noi ma anche fino al 2010, i club avevano una loro vita e un loro pubblico anche molto presente e numeroso, questo voleva dire che se eri una band medio-piccola, approfittavi in qualche modo di quel pubblico che andava in quel locale già di suo. Adesso è un po’ il contrario: siamo noi artisti che dobbiamo riempire i club, portare la gente nei club. Ti dirò, siamo anche ben felici di rendere il favore, se c’è stato un periodo in cui siamo stati noi a godere dell’indotto di un live club adesso siamo contentissimi di dover portare noi il pubblico tra quelle mura.

Domanda un po’ nostalgica: dal tuo punto di vista, qual è la cosa che secondo te nel tuo lavoro è maggiormente cambiata dal 2006? E voi quanto siete cambiati?

Dal nostro punto di vista in quanto band, non è cambiato tantissimo, ovviamente è cambiato il fatto che sono cambiati i tempi di ripresa dall’hangover. Per il resto facciamo sempre tutto il casino di una volta e forse, ti dirò, anche di più.

Beh,  questa è una bellissima presa di coscienza. Siete rimasti voi.

È anche frutto di un controllo incrociato. Essendo una band ristretta, dove ognuno di noi nel trio è insostituibile, non c’è mai stata una grande possibilità di montarsi troppo la testa l’uno rispetto all’altro. Questo controllo incrociato, pur permettendoci di fare ognuno le proprie cose in musica, ci ha permesso di restare ognuno con i piedi lì. Dall’altra parte la cosa bella di una volta è che il movimento autonomo dei locali faceva sì che non ci fosse bisogno ad esempio delle prevendite. Le prevendite che esistevano sì, anche prima, ma magari per il concerto di Vasco Rossi, non per il concerto al club che hai dietro casa. Succedeva che tu una volta andavi al locale e scoprivi lì per lì quanta gente c’era. Fino a quel momento non dovevi fare, mi viene da dire, l’arrotino cioè andare in giro a vendere, a fare il porta a porta. E ora questa cosa invece è parte del sistema ma non parte di noi, non è una nostra predisposizione. È sfiancante anche per chi è dall’altra parte. Lo vedo per gli artisti che periodicamente devono fare il promemoria con un post, una storia e quant’altro per ricordare alla gente dei biglietti. Se si potesse evitare questa roba qui… Che poi i social non sono certo un mezzo di informazione lineare per il quale tu dici una cosa e tutti la sentono, no semmai è del tutto casuale, se vuoi leggi il post, magari quello con cui annunci il tour, altrimenti no e quindi sei costretto a ripetere sempre le stesse cose e dopo un po’ davvero stanca.

Il vostro nuovo album è in uscita il prossimo 6 maggio. Il titolo Giuramenti, si direbbe, è impegnativo. Come è nato e puoi darci qualche impressione sul nuovo album?

È interessante questa cosa che dici, perché banalmente avremo potuto scegliere una parola che, come questa, è contenuta in uno dei brani del disco, però è buffo come oggi, senza neanche volerlo, siamo andati inconsapevolmente a prendere delle parole che fanno parte del mondo nel senso più ampio della religione e dello spirito, che evidentemente è un mondo in caduta libera. E non si capisce bene questa eredità, anche di parole, dove andrà a finire, chi la deve raccoglie. La musica in parte ci prova però dall’altre parte è costretta a flirtare con qualsiasi altra cosa, con la moda, con il successo che rende un po’ spuria il passaggio dalla religione alla musica. La parola Giuramenti fa sempre un po’ effetto nel vederla scritta, perché si pensa subito ai propri di giuramenti, che, nel nostro caso sono i più difficili da rompere. Il primo giuramento per noi è stato quello di continuare a fare musica no matter what, qualsiasi cosa accadesse e continuare ad avere qualcosa da dire, non solo nel farla per farla. Soltanto una dinamica del genere, cioè votiva e di giuramento può spiegare il perché si faccia ancora musica in Italia. Perché solo quello che ricavi dal punto di visto umano, di cibo per l’anima e non dal punto di visto di mero conto in banca è incomparabile. È un album che è pieno di ombra, di dubbi, di bilanci, è tutt’altro che granitico. La frase nell’album che contiene la parola GIURAMENTI dice “contraddetti dai nostri stessi giuramenti”, perché ho sempre avuto questa poetica di guerra interna a me. Però è un album che non vuole fare la morale a nessuno, che non si pone su nessun pulpito. Si parla del mondo, del fuori ma come al solito molto legato alle proprie mancanze, ai propri ritardi. L’EP dell’anno scorso, Cronaca nera e musica leggera è nato sostanzialmente nello stesso periodo degli altri pezzi, poi noi abbiamo deciso di dividere in un EP quei pezzi che tutto sommato si assomigliavano tra loro, quelli con più rabbia, con uno sguardo rivolto fuori mentre nell’album ci sono quei pezzi ancora più avviluppati su stessi, molto elettrici, maggiormente malinconici e con meno ironia mi verrebbe da dire.

 

 

 

 

 

 

Alessia Sbordoni: Mangiadischi di professione, ho come passione principale la musica. Adoro l’arte, il cinema, e viaggiare alla scoperta di nuove culture, di tutti i tipi e tutte le taglie. Ho una laurea in giurisprudenza e un master per le funzioni internazionali e la cooperazione allo sviluppo conseguito a Roma.