Tacabanda, e Daniele Silvestri inondò la Rocca di Assisi di musiche e parole. Belle e giuste

ASSISI – Più che una band quella di Daniele Silvestri è una banda. Vedere ancora Piero Monterisi che dopo una vita picchia sulla batteria, in fondo a sinistra, fa una certa impressione. E poi il basso di Gabriele Lazzarotti, le tastiere di Gianluca Misiti, la tromba di Ramon Caraballo. Sono sempre loro. Ma non solo loro, perché il palco è affollato. I vecchi, i nuovi, il capobanda: sono otto. Otto che suonano e cantano, otto amici, basta guardare come si abbracciano in cerchio alla fine dopo l’orgia di percussioni intorno agli attrezzi di Monterisi. “Vado a giocare”, Silvestri il concerto lo chiude così, saluta il pubblico e va a imbracciare le bacchette e a pestare sui tamburi insieme agli altri. Sotto il cielo di Assisi è tardissimo, quasi l’una di notte. Si è alzata una brezza impensabile ad accarezzare il migliaio di persone che ha assistito a questo spettacolo lunghissimo, durato più di due ore e mezza. Stanche, probabilmente felici, si incamminano verso i parcheggi della città e le luci della Rocca dietro di loro si spengono e li lasciano scendere al buio. Daniele Silvestri ha succhiato tutta l’elettricità che poteva.

 

 

E ne ha ridata indietro, di elettricità, eccome. Sempre sorridendo, perché Silvestri è così. Suona, parla, sorride, e parla e parla e parla. “In questo tour estivo mi sa che devo parlare meno che nei teatri”, dice all’inizio, ma poi non è che si contenga un granché. Perché dovrebbe, dopotutto? È estate, il posto è splendido, la gente è venuta per questo, per ascoltarlo. La gente lo sa, come sono i concerti di Silvestri, si aspetta parole in esubero, mica in difetto. Quella che è venuta stasera oscilla tra un paio di generazioni. La sua, e quella immediatamente successiva. Sono le facce di chi Silvestri lo ascolta da sempre e quelle di chi è nato poco prima che Silvestri si mettesse a suonare. È un esercizio che i musicisti, da un certo punto in poi, fanno tutti: tra il pubblico in quanti non c’erano ancora quando ho cominciato ad avere un pubblico? È un modo per capire che cosa rimane, e cosa può ancora rimanere. Chissà che conto ha fatto, ieri sera, Silvestri.

 

La Rocca di Assisi, quindi, e una notte di metà luglio. Giovedì 20, per l’esattezza, la prima notte di Riverock 2023. Un grande inizio, con Silvestri, perché è lui e perché è grande il disco che Silvestri ha fatto uscire una manciata di settimane fa. X è uno dei lavori migliori della maturità per il cantautore romano. È anche una concessione aperta alla melodia, per uno che alla melodia ha in fondo concesso molto quasi sempre. Poi c’è la potenza del multiforme, nei suoi pezzi, e la traccia che dà il “la” e anche il nome all’album è di una potenza formidabile. Peccato che dal vivo non si possa replicare: troppe voci, troppi incastri, troppa gente dentro. Il concerto però comincia comunque così, con X sparata dalle casse e l’apparizione dei musicisti a metà canzone, con Marco Santoro che imbraccia il suo fagotto e soffia fuori dei bordoni incendiari che portano dritto ad Argentovivo. Era il 2019, c’erano anche Manuel Agnelli e Rancore, c’era Sanremo. Il 2019, e nel frattempo il mondo è impazzito tante di quelle volte che nemmeno ce ne rendiamo più conto. Silvestri canta a mani nude, e per un po’ sembra nudo davvero, poi gli danno una chitarra ed è il vestito che gli sta meglio addosso. Gli sta bene anche il pianoforte a cui si siederà a metà concerto, il piano a coda che spunta quasi dal nulla, nero nel buio, in mezzo al palco. Ma con la chitarra è un’altra cosa.

 

Cambia scaletta, Silvestri, lo minaccia, lo promette, lo conferma, mentre gli altri, dietro di lui, si mettono le mani sui capelli, chi ce li ha ancora e chi non ce l’ha. “Questa non la facciamo da un po’, ma la sappiamo suonare. Chi ha voglia di farlo mi segua”, e via con Senza far rumore. Nel frattempo si è già materializzata un’accoppiata micidiale, da far vibrare la pelle. Prima Marzo 3039: una distopia fulminante nata quasi trent’anni fa e che oggi sembra fin troppo ottimistica. Poi L’uomo col megafono, parte di quella stessa stagione, forse il modo più didascalico in cui Silvestri abbia mai ritenuto di essere politico, ma didascalico nel modo migliore possibile. La portò a Sanremo, è ancora una bomba. È politica pura anche quella di Precario il mondo, anno 2011. Un’analisi spietata del Paese e del mondo del lavoro valida a maggior ragione oggi, in un tempo che al lavoro riconosce sempre meno dignità e meno senso, perché non è sensato lavorare se bisogna farlo a qualsiasi condizione. Avete letto Le grandi dimissioni di Francesca Coin? Dovreste. Precario il mondo sarebbe una perfetta colonna sonora.

 

 

Poi l’amore, certo, l’amore. Quasi sempre in punta di penna, raccontato un po’ per scherzo, “perché da giovane quando scrivevo d’amore volevo sempre dare l’idea di non prendermi troppo sul serio”, da giovane ma ammette anche un po’ da vecchio, e vecchio si fa per dire. A cinquantacinque anni, e Silvestri li fa tra un mese, si è tragicamente vecchi e giovani insieme. L’amore che ha bisogno di coraggio, come quello di Ma che discorsi, l’amore codardo di Banalità, l’amore disco di Amore mio, l’amore al miele di Occhi da orientale e di Tutta, altro pezzo nuovo di zecca, che ne è una discendente in linea diretta. Da mezzanotte in poi Daniele Silvestri prende una strada più larga, c’è il pianoforte e c’è Paolo Borsellino. In tanti hanno detto tante parole su di lui, in tanti hanno fatto film, fiction, spettacoli, libri. Ma niente come L’appello è il riflesso autentico di ciò che la morte di Borsellino ha rappresentato per questo Paese malandato. Se l’arte deve saper dare conto della società in cui germoglia, questa è l’arte al proprio meglio. Parte il pezzo e nel cuore della platea in tanti cominciano a sventagliare foglietti rossi, rossi come l’agenda che “non si trova più”. Da brividi.

 

Prima del bis c’è spazio anche per Colpa del fonico, una delle vette di X, ancora amore, quasi senza respiro, con una coda psichedelica trainata dalla chitarra mancina di Daniele Fiaschi. E il bis è una serie di colpi da knock out, uno dietro l’altro. A bocca chiusa è un inno alla partecipazione e all’impegno politico nella Roma dei grandi cortei, di via Merulana che pare un presepe, un inno alle parole d’ordine che, beh, “so’ sempre quelle”, e ci mancherebbe altro. “Scuola e lavoro, che temi originali. Se non per quella vecchia idea de esse tutti uguali”. E poi La paranza, e poi Salirò, e poi Testardo: bisogna divertirsi, nella vita, sempre e comunque, ma come sanno divertirsi quelli intelligenti. Infine, la festa di Cohiba. Qualche pugno chiuso che si alza ancora, l’adrenalina che si impenna e poi si scioglie nella storia del piccolo grande uomo che ha incarnato più di chiunque altri la voglia, anzi la pretesa di giustizia del Sud del mondo nel secolo scorso. Una storia, quella di Ernesto Che Guevara, che va ancora e ancora raccontata. “C’è, se vai ben oltre l’apparenza, un’impossibile coerenza che vorrei tu ricordassi almeno un po’”. E le canzoni di Daniele Silvestri servono a questo. A ricordarci com’è stato il mondo, come siamo e siamo stati noi, e come potremmo essere. Trent’anni dopo, dieci dischi dopo, una vita dopo, con la sua banda di cinquantenni felici come bambini che si inchinano al pubblico con le braccia sulle spalle mentre la brezza, dicevamo, si alza e scaccia via, come fa la musica, il pensiero dell’inesorabilità del caldo e del tempo.

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