Riceviamo e volentieri pubblichiamo nella nostra rubrica Dentro lo Stivale questa recensione di Vanni Capoccia sulla mostra che è in corso a Firenze, Palazzo Strozzi, “Tracey Emin-Sex and Solitude” che sarà visitabile fino al 20 luglio, tutti i giorni dalle ore 10 alle 20, il giovedì fino alle ore 23.
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A Palazzo Strozzi l’arte senza filtri di Tracey Emin
di Vanni Capoccia
Basta uno sguardo d’assieme alla mostra “Sex and Solitude” a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 20 luglio 2025 per rendersi conto di trovarsi di fronte a un’artista sanguigna che dipinge con i colpi che il suo corpo ha subito negli anni. Un rapporto tra ferite ed esistenza che trasforma dolori, autodistruzione, necessità di amare ed essere amata utilizzando installazioni, dipinti, bronzo, frasi al neon, desueti modi di lavoro femminile come il ricamo.
Sta di fatto che è un’artista che non cerca ispirazione nel mondo esterno ma dentro di sé sfidando i confini tra pubblico e privato, affrontando i tabù di petto, spingendosi sempre un po’ più in avanti trasformando la sua esistenza in opera. La sua è un’arte fisica senza soluzione di continuità fra arte e autobiografia con la quale dipinge, scolpisce, scrive con il neon, ricama non i suoi traumi ma con i suoi traumi, con le sue ferite materiali e interiori. Stupro, cancro, aborto, interventi chirurgici sono strumenti del suo fare con i quali elabora e circoscrive il rapporto con il suo per certi aspetti “nuovo corpo” con opere lancinanti grondanti sangue come la figura chagalliana di “Take me to Heaven” (Portami in Paradiso) del 2024 o l’angosciante donna con un feto di “You were still There” (Eri ancora lì) del 2018 che marcano l’immagine della donna e il rapporto tra lei e il corpo nell’arte contemporanea.
Tracey Emin, oggi una delle figure più importanti dell’arte contemporanea, è artista dalla forte impronta espressionista che non a caso è stata accostata a quella del viennese Egon Schiele e al suo erotismo senza pudori. Ma se nelle fanciulle di Schiele c’è una critica verso il perbenismo borghese in Emin non c’è la volontà di contestare ma quella di raccontarsi. Di mischiare arte e vissuto mettendo a nudo le proprie fragilità mostrandosi, nuda e cruda, per quello che è e per quello che ha subito consentendo di identificarla nelle sue sofferenze e nella forza che dimostra nel mostrarle.
Emblematica rimane la decisione di non dipingere presa quando rimase incinta fino a quando anni dopo, forse per riconciliarsi con la pittura, si chiuse nella stanza di una galleria di Stoccolma dipingendo per tre settimane e mezzo nuda tra un ciclo mestruale e l’altro “Exorcism of the Last Painting I Ever Made (“Esorcismo dell’ultimo dipinto che abbia mai fatto”) ricreato a Palazzo Strozzi per una mostra nella quale Tracey Emin, racconta con sincerità una storia, la sua storia dando voce a sé stessa e alle sue parole.
E quando le parole mancano parlano il suo corpo e gli altri corpi femminili a partire da quello monumentale nel cortile di Palazzo Strozzi: bronzeo e rannicchiato a sottolineare la differenza di una condizione rispetto alle statue maschili solitamente erette e svettanti. Prologo a dipinti, sculture, allestimenti, frasi sbattute davanti agli occhi di chi la guarda e al cuore di chi l’ascolta perché ciò che Tracey Emin vuole trasformando corpo, vita, sentimento, dolore in una narrazione è “che la gente provi qualcosa quando guarda il mio lavoro. Voglio che sentano sé stessi. Questa è la cosa più importante”.
“Sex and Solitude” sicuramente non lascia indifferenti di fronte a un percorso nel dolore e nel sesso che ad un certo punto diventa religioso. È anche per questo che nel guardare i lavori di Tracey Emin si dovrebbe pensare che le opere d’arte non sono dei fossili ma che si trasformano con il passare del tempo. Guardandole non ci si può, quindi, fermare all’effetto scioccante che inizialmente provocano ma considerare che sono per la maggior parte l’opera d’una giovane artista diventata adulta che lo scorrere del tempo ha cambiato consentendole di raggiungere una certa serenità che le ha fatto prendere la decisione di tornare a vivere a Margate.
La città dov’è cresciuta con il fratello e ha dato vita a uno spazio professionale per artisti sovvenzionato interamente da lei. Dove nel suo studio dipinge sotto lo sguardo dei suoi due gatti Teacup e Pancake riflettendo forse sulla solitudine e sull’irrisolto desiderio di maternità e su quanto ricamò nel suo celebre colorato arazzo I do not expect (Non mi aspetto) del 2002: “Non mi aspetto di essere madre, ma mi aspetto di morire sola… La rivoglio indietro – quella ragazza di 17 anni”.
Nella foto di copertina: Tracey Emin, I waited so Long (det.), 2022. Photo: HV-Studio. Courtesy of the Artist and Xavier Hufkens, Brussels ©Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2024.