Coronavirus, io ho un sogno: è ispirato alla storia di Albert Sabin

PERUGIA – Ora che siamo costretti a diffidare l’uno dell’altro come ipotetici untori, ora che dobbiamo mantenerci a distanza, 1 metro e 82 dice la scienza, per debellare qualsiasi possibilità di contagio, ora che non possiamo più baciarci, né abbracciarci, né stringerci la mano, abbiamo definito il quadro di un mondo “sterile”, anaffettivo, raggelante che non lascia spazio a segni, significanti e significanti di umanità. Così come la storia insegna quando il sovrano in cambio della sicurezza offerta dal suo esercito, chiedeva una buona porzione della libertà individuale ai propri sudditi; così come stavano convincendoci che non c’è differenza tra sicurezza percepita e sicurezza reale che dati e statistiche accertano di giorno in giorno; nel nome della stessa sicurezza, in nome della nostra incolumità fisica, ci si chiede di rinunciare a una fondamentale porzione della nostra umanità. Così al grido di “si salvi chi può”, tutto è lecito, persino rinnegare l’affettività e lo stesso paradigma dell’umanità. E se la scienza, non potendo fare altro che andare a tastoni, stabilisce i nuovi sintagmi del nostro convivere per il “nostro bene”, quel che non ci è ancora impedito di fare è sognare, ristabilendo una relazione fondamentale tra il nostro Io cosciente e il nostro subconscio che, si sa, è insofferente a qualsiasi costrizione, associa fatti e non fatti alla nostra più intima e insondabile natura. Io ho un sogno che assai più modestamente si associa a quello del reverendo Martin Luther King o quello di John Lennon in “Imagine”: da buon baby boomer forse eterno Peter Pan, forse illuso e anche un po’ buonista, credo che forse un giorno al termine dell’incubo, in molti capiranno che gli altri siamo noi e che noi tutti, in fondo, nulla possiamo contro due ineffabili principi, vita e morte, in altri termini le pulsioni inconsce di vita e di morte, Eros e Thanatos. Freud direbbe che l’umanità sta vivendo una fase nevrotica della sua storia e ripeteremo gesti e rituali anaffettivi sino a scorgere qualche nuovo spiraglio, forse un vaccino o un nuovo grande evento che ripristinerà un nuovo equilibrio. E allora intanto sogniamo, una delle poche attività che ci sono ancora concesse. Io ho un sogno. L’ho scoperto con il mio Io cosciente imbattendomi nella storia di Albert Bruce Sabin che allo stesso tempo ricolloca nuova fiducia nell’Uomo e anche l’autenticità dell’eroismo, un eroismo che non sfida il pericolo pur a vantaggio di un’ipotetica vittima, che non si palesa con un atto al di là dell’ordinario ma che è extra/ordinario perché ricolmo di umanità. Eccola la storia di Sabin, tratta con copia e incolla – non mi vergogno a specificarlo – dal sito Elogioallafollia/Altervista.org e attentamente verificata: “Albert Sabin nacque da famiglia ebrea nel 1906 in Polonia e più precisamente a nel ghetto di Białystok al tempo sotto l’egida della Russia imperiale governata dagli zar. Poco più che quindicenne emigrò con la famiglia in New Jersey per il sempre più difficile clima che si stava cominciando a creare attorno alla comunità ebraica e nel 1930 venne naturalizzato cittadino statunitense. Grazie all’aiuto di parenti benestanti frequentò con successo la facoltà di odontoiatria nella New York University. La sua vita, e quella di molti bambini di tutto il mondo, cambiò improvvisamente con la lettura di un libro di Paul de Kruif intitolato “I cacciatori di microbi”. Lo scritto del microbiologo lasciò talmente affascinato Albert che da studente modello di odontoiatria cambiò a favore della più complessa facoltà di medicina. Nel 1931 terminò gli studi e divenne l’assistente del Dottor William H. Park il luminare che debellò la difterite. La scelta di studiare un virus che negli anni 30 stava facendo molte vittime – quello della poliomielite – avvenne per una serie “fortuita” di combinazioni: l’improvviso manifestarsi di questa malattia a New York e il consiglio del suo maestro dottor Park. Fu così che Albert si dedicò in maniera meticolosa allo studio di questo virus e risultati non si fecero attendere: nel 1933, a meno di 2 anni dall’inizio degli studi, Sabin dimostrò che il virus prediligesse e si moltiplicasse nelle anse intestinali catalogandolo così come “enterico” e non, contrariamente a quanto sino allora creduto, “respiratorio”. Nel 1953 Albert Sabin annunziò incoraggianti risultati del suo vaccino in base a test condotti sugli animali, ma non venne creduto, almeno in patria. L’Europa dell’est diede invece credito alle scoperte di Sabin vaccinando agli inizi degli anni 60 alcune centinaia di migliaia di bambini con il risultato che non si verificarono ulteriori casi di poliomielite tanto che vennero prodotti ingenti quantitativi di vaccino a copertura di tutte e 3 i ceppi del virus. Finalmente anche in Usa, seppur con ritardo, si adottò il metodo salvando la vita a molti bambini.
Il vaccino anti-polio di Sabin fu autorizzato in Italia nel 1963, reso obbligatorio nel 1966, e provocò la scomparsa della malattia dal Paese, come in tutti gli altri dove è stato reso obbligatorio. Visti i sensazionali risultati furono prodotti e immessi sul mercato notevoli quantitativi del vaccino Sabin “orale monovalente” contro il poliovirus tipo I. Successivamente vennero messi in vendita sia il vaccino orale di tipo II (Opv – Oral Polio Vaccine) sia quello trivalente (Topv), valido contro tutti e tre i tipi di poliovirus. Con la zolletta di zucchero inzuppata di vaccino Sabin si vaccinarono centinaia di milioni di bambini in tutto il mondo. Questa è la storia del medico Albert Sabin e della zolletta di zucchero con la quale somministrò il vaccino a milioni di bambini e che a un certo punto dichiarò: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. E’ il mio regalo a tutti i bambini del mondo”. Questo significa che non trasse alcun vantaggio economico dalla sua invenzione affinché un prezzo più contenuto facilitasse la più ampia diffusione possibile. Dalla realizzazione del suo diffusissimo vaccino anti-polio il filantropo Sabin non guadagnò quindi un solo centesimo, continuando a vivere con il suo stipendio (sicuramente non entusiasmante) di professore universitario. Sabin non fu mai insignito del premio Nobel e questo è uno dei più grandi torti nella storia della medicina. Ritiratosi ufficialmente dalle scene delle attività di ricerca continuò comunque attivamente a spendersi per trovare dei rimedi contro il morbillo, il tumore e la leucemia. Sabin morì nel 1993 nella quasi totale indifferenza lasciandoci, oltre al vaccino, insegnamenti di solidarietà dove il bene superiore prevale su qualsiasi interesse.
Sarebbe bello che al termine dell’incubo Coronavirus, qualcuno, un “eore” autentico, seguisse le orme di Sabin e che arrivato alla definizione di un vaccino, sfidasse gli interessi dell’industria farmaceutica, rimanesse anonimo e permettesse la diffusione planetaria della sua scoperta. E’ solo un sogno, una delle poche attività che ci è ancora concessa. Perché non farlo?
Chiudo con le parole di Sabin che danno anche l’esatta misura della statura morale del virologo: “Alla domanda se volesse vendicarsi delle due nipotine uccise dalle SS, rispose: “Mi hanno ucciso due meravigliose nipotine, ma io ho salvato i bambini di tutta l’Europa. Non la trova una splendida vendetta? Vede, io credo che l’uomo più potente sia quello che riesce a trasformare il nemico in un fratello”.
 
 

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