Coronavirus: non è una "civiltà" per vecchi

PERUGIA – Non un anziano, ma un vecchio come si diceva tempo fa. Un vecchio solo, un pescatore, che ingaggia una battaglia con un marlin, un pesce spada di enormi dimensioni. Riesce a ucciderlo ma prima ancora che arrivi con la barca a riva, il marlin viene divorato dagli squali e della sua pesca rimane solo un’enorme lisca. E’ quanto scriveva Ernest Hemingway settanta anni fa nel suo romanzo più famoso, “Il vecchio e il mare”. Non si è arreso quel vecchio, ha lottato sino allo spasmo per tenersi aggrappato alla vita. Alla sua preda. Ha combattuto con tutte le forze e il vigore insospettabile per un uomo della sua età. Eppure gli eventi lo sconfiggono. Qualcosa di più forte, di potente, lo distrugge e vanifica tutti i suoi sforzi. “Guardò il mare – scrive Hemingway – e capì fino a che punto era solo, adesso. Ma vedeva i prismi nell’acqua scura profonda, e la lenza tesa in avanti e la strana ondulazione della bonaccia. Le nuvole ora si stavano formando sotto l’aliseo e guardando davanti a sé vide un branco di anatre selvatiche stagliarsi nel cielo sull’acqua, poi appannarsi, poi stagliarsi di nuovo, e capì che nessuno era mai solo sul mare”. Mai come ora la vita e la morte sono condizione condivisa. Qui da noi, in Italia. Che sta offrendo esempio al mondo intero. Ma il vecchio ora è stanco di soprusi, sente che più degli altri è fragile ed esposto alla fine. Non se ne lamenta, in fondo sa che saranno gli altri, i giovani, ora a doversi imporre sulla morte. Per lui non c’è più tempo, ma il senso di sgomento è profondo. Leso nella sua dignità, offeso nel disconoscimento di ciò che ha realizzato e del ruolo marginale, eppure sussidiario, a cui è stato relegato, non crede che si arrivasse a tanto. Non ricordo chi disse che il livello più alto di una civiltà si misura in base al trattamento che riserva ai suoi anziani. Oggi i vecchi rischiano. Più di tutti. E non solo perché gli acciacchi della vita ne fanno più facili prede degli attacchi del virus, ma perché abbiamo impostato i paradigmi della nostra coesistenza sulla velocità, sul rincorrere sempre più in fretta una vita vuota, aggrappati ai sogni di bisogni e desideri che qualcuno crea per noi. Perdendo i riferimenti di una comunità ancora capace di condividere. Basta correre senza meta. E i vecchi – si sa – vanno piano. Quella dei movimenti lenti, pacati e meditati è prerogativa del senex, saggio e saturnino, realista e disincantato. Che ha smesso di sognare. E che abbiamo costretto a non far altro che aspettare la morte. Prima ancora che capissimo cosa realmente stesse accadendo, più volte si è insistito che il virus avrebbe colpito soprattutto gli anziani, quasi con un’espressione di compiacimento. In fondo si salvi chi può e chissenefrega se il diritto alla salute, qualsiasi età si viva, è inviolabile. Chisseneimporta se dopo aver saturato il sistema sanitario, gli ospedali si trovano sprovvisti di posti letto in terapia intensiva, che ci importa del fatto che qualcuno, data l’estrema emergenza, abbia ipotizzato che il criterio di selezione di chi avesse diritto alle cure, si sia stabilito in base alla soglia dei 60 anni. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è spacciato. Ora quelle voci si sono sopite, anche perché i vecchi sanno che saranno i più indifesi di fronte al virus. E ognuno di loro sembra accettare il crudele disegno del destino, la spietata sorte che li condanna. In pochi giorni sono saltati tutti i criteri che vedevano i vecchi soggetti di una nuova idea di inclusione: dagli ausiliari davanti alle scuole dotati di palette per stabilire la precedenza dell’attraversamento della strada degli scolari, alle forme di intrattenimento e di svago, ai viaggi di gruppo, al ballo nelle balere e nei Cva. Eppure la società invecchia e le percentuali parlano chiaro. L’Italia non è un paese per giovani. Tanto meno l’Umbria, dove l’aspettativa di vita per le femmine arriva a 85,4 anni, mentre per i maschi si attesta a 81,3, contro una media nazionale che vede i due indicatori rispettivamente pari a 84,9 e 80,6. Su un altro versante questi dati si trasformano in elementi  di grande criticità, con un indice di vecchiaia che nella nostra regione sale a quota 195,1 mentre in Italia si colloca a 165,3. Vecchi e sempre più soli e costretti a ricorrere alle cure di badanti dell’Est Europa. Altro dato da evidenziare è che su una popolazione complessiva di circa 900mila abitanti, ci sarebbero 66 mila vedovi residenti in Umbria, l’84%, vale a dire oltre 55mila persone sono donne. Nello specifico – sono dati riferiti a due anni fa e nel frattempo il trend ha seguito una curva in ascesa –   il 44 per cento delle over 65 è vedova (42 per cento in Italia), dato che scende all’11 per cento circa tra gli over 65 (dato simile a quello nazionale). Si è modificata quindi la struttura della popolazione umbra che nel 12,8 per cento ha tra 0 e 14 anni (in Italia il 13,5 per cento), il 62,1 per cento tra i 15 e i 64 anni (64,3 per cento), e il 25,2 per cento oltre i 65 anni (22,3 per cento). E in attesa di una riflessione sull’esigenza di una modifica profonda delle politiche economiche e sociali – come auspicava il presidente dell’Ires Cgil dell’Umbria, Mario Bravi – i vecchi sono diventati ingombranti e sono numerosi coloro che pensano che ad abitare il mondo siamo in troppi e che i costi sociali per sostenere l’invecchiamento della popolazione sono ormai divenuti proibitivi. Nelle guerre e nelle emergenze viene fuori il meglio e il peggio degli individui, speravo che il Coronavirus, insieme alle morti e ai contagi diventasse un “veicolo” per un ripensarci noi tutti come comunità che condivide una condizione di estrema criticità e che questa condizione si trasformasse in una modalità di progresso. Per ora, però, al di là dei flash mob sui balconi e di una nuova coesione sociale che sembra essere nata dall’emergenza, questo progresso è ancora tutto da dimostrare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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