Duke Ellington e la giungla africana: quando il jungle style conquistò New York

PERUGIA – Pubblichiamo questo articolo tratto dalle pagine culturali del Gruppo Corriere – Corriere dell’Umbria.
Maculato, leopardato: da qualche anno l’industria tessile e il mondo del fashion sembrano aver trovato una intesa per attrarre le attenzioni di donne e ragazze che non rinunciano ad un dress code ormai in voga. Ma forse poche di loro sanno che quegli abiti e quegli accessori provengono direttamente da un’antica quanto diffusa tradizione che affonda le radici nell’idea più amplia di esotismo che a partire dal XVIII secolo si è imposto come paradigma artistico-musicale in Occidente. Madame Butterfly, la Turandot, ma anche l’Aida di Verdi, ad esempio, nelle loro ambientazioni, erano riferite a mondi lontani e “misteriosi” che ne accrescevano le suggestioni di scenari che ispiravano l’immaginazione. In tempi più vicino a noi, sono stati numerosi gli artisti che hanno fatto riferimento all’Oriente e alle sue suggestioni; l’apparizione sulle scene musicali e discografiche della New Age ne sono profondamente infarcite. Ma nel jazz chi ha avuto un ruolo determinante nell’imporre all’attenzione generale il primitivismo dello jungle style e della jungle music fu sicuramente Duke Ellington di cui quest’anno si celebrano i 120 anni della nascita. Prendendo a riferimento il quadro storico-sociale in cui la musica del “Duca” si impose, c’è da sottolineare il clima che regnava negli Stati Uniti: la grande crisi economica-finanziaria del 1929, il proibizionismo e, di contro, la grande voglia di evasione che caratterizzava tutti gli strati sociali della popolazione americana. In questo senso è significativo l’inizio della Swing Era, la fase storica in cui si imposero le Big Band, le grandi orchestre che in quel periodo ripresero la tradizione, antecedente alla crisi, delle orchestre da ballo, ma che ne ampliarono la popolarità, supportate dalle etichette discografiche che ne intuirono le potenzialità, stabilendo dei codici a cui attenersi: una potente sezione fiati, clarinetti, sassofoni, trombe e tromboni, una sezione rimica composta da pianoforte, batteria contrabbasso e spesso anche una chitarra. Era questo lo “standard” di base di una big band poi sottoposto e mille diverse variabili nel corso degli anni che seguirono e in base alle diverse esigenze dei band leader e degli effetti sonori che si volevano produrre. Tra i protagonisti della Swing Era e del periodo delle Big Band sono sicuramente da citare Benny Goodman, Woody Herman, Glenn Miller, l’afroamericano Count Basie, tutti compositori e direttori d’orchestra che contribuirono alla diffusione del jazz nel mondo, ma a Duke Ellington va riservato il titolo di innovatore geniale del periodo preso a riferimento. Il wa wa e il growl per gli ottoni sono effetti che hanno caratterizzato il jazz sin dagli esordi, ma a dare loro una connotazione che nella fantasia degli ascoltatori rievocava la giungla africana, è stato sicuramente lui, il Duca, che faceva riecheggiare le grida degli animali riportando alla mente le foreste vergini di Rousseau e Kipling, ma anche la spietatezza predatoria della vita nella grande metropoli, di New York. Quando Ellington viene scritturato al Cotton Club non esiterà a proporre il jungle anche perché ad Harlem il pubblico bianco era a caccia di evasione di brividi e la moda del momento rinviava a giungle impenetrabili e a costumi di pelle di leopardo. Ellington così mira all’emozione, allo swing e al movimento esaltando le improvvisazione dei solisti scelti con estrema cura e lui stesso al piano spesso si produce in improvvisazioni dal taglio molto originale. La sua esecuzione proviene dal ragtime e dallo stride di New York e si basa su un senso molto vivo dei contrasti e su una tensione ritmica sempre molto accentuata, un universo sonoro che si sviluppa con la sua grande orchestra. Dal termine degli anni Venti sino ai Cinquanta, Ellington rimase il vero e proprio creatore dell’estetica della grande orchestra, colui che ne sviluppò a pieno tutte le grandi potenzialità espressionistiche. Nel 1939, uno degli ingaggi più importanti di Ellington fu quello del pianista, compositore e arrangiatore Billy Strayhorn (Dayton, 1915 – New York, 1967). Strayhorn era un compositore di formazione classica (aveva studiato alla Westinghouse High School of Music di Pittsburgh), e di grande raffinatezza e genialità; la sua carriera, probabilmente anche a causa della sua omosessualità che, oltre all’essere nero, costituiva allora un ostacolo sociale notevole, si svolse all’ombra del band leader, il quale gli offrì, rendendosi immediatamente conto del suo valore, un lavoro sicuro e uno stipendio. La portata del contributo di Strayhorn alla musica di Ellington ha iniziato a essere indagata e riconosciuta solo negli ultimi anni. La sua morte, nel ’67, gettò Ellington in una profonda depressione, dalla quale stava per riprendersi quando seppe della fine di Johnny Hodges (suo compagno di avventura sin dagli esordi dell’Orchestra), nel ’70. Da questo secondo colpo in realtà non si riprese più, avviandosi verso un declino che, nel maggio del ’74, lo porterà alla morte, causata da un cancro ai polmoni.

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