I campetti di calcio abbandonati e i vuoti della città che non vediamo

PERUGIA – Le periferie sono sempre piene di sorprese. Non sempre piacevoli. Pensiamo al calcio, per esempio, lo sport nazionale per eccellenza. Squadre importanti, squadre piccole, squadre di quartiere, parrocchiali, amatoriali, chi non gioca a calcio, in Italia? È quindi normale incontrare più o meno ovunque dei campetti, ben tenuti o mal tenuti, ben in vista lungo la strada o nascosti dietro qualche edificio. I campetti di calcio sono l’equivalente americano dei campi da baseball o dei campi da rugby gallesi o delle piste di pattinaggio di San Pietroburgo. Certo il Covid non aiuta, ma l’abbandono evidente di tanti di questi campi fa impressione. Come testimoniato in diversi altri Focus su questa testata, e c’è materia per tornarci sopra in futuro, il degrado urbano sembra un processo entropico che colpisce prima di tutto la capacità umana di percepirlo; abitiamo un quartiere, semmai bello nuovo, e inizialmente tutto è come deve essere, gli intonaci esterni degli edifici sono brillanti, le strade bene asfaltate, i giardinetti e le aiuole ben tenuti e così via. Il tempo passa, e i residenti non osservano più quegli intonaci e quelle aiuole perché diventano, come tutto il resto, puro sfondo non più percepito come insieme di dettagli; e se l’intonaco diventa prima opaco, poi screpolato, poi cadente, se quelle aiuole diventano, pian piano, una selva di erbacce, per lo più non ci si fa caso. Vaghiamo tutti persi nei nostri problemi, incuranti dell’ambiente circostante, e riapriamo (forse) gli occhi dentro casa; e poi dentro l’ufficio; o nel negozio. Ma i tragitti intermedi sono tutti diventati assenza, vuoto, inconsistenza; non ci interessano se non come spazio per il trasferimento dal luogo A al luogo B. Non lo percepiamo come continuità dai e dei luoghi. Fuori casa nostra non c’è più nulla di “nostro”, è spazio alieno.

I campetti di calcio abbandonati, più ingombranti e visibili delle aiuole, strillano – a chi solo vuole udirlo – il loro rivendicare un ruolo sociale; hanno avuto un’infanzia forse felice e rumorosa, piena di ragazzini, e forse adulti, con dirigenti fieri della loro responsabilità; forse si sono disputati piccoli tornei, partite aziendali, l’immancabile scapoli-ammogliati, ma ora tutto tace, la ruggine avanza, vecchie sedie rotte sono gettate alla rinfusa, le erbacce crescono.

In alcuni casi un vecchio lucchetto rugginoso impedisce l’accesso, ma in molti casi il lucchetto non c’è, o è stato divelto da tempo.

Certo, il Covid. Ma il degrado di cui parliamo è di molto antecedente. Alcuni di questi campetti, quando la pandemia non c’era, erano utilizzati in maniera spontanea da gruppetti di ragazzi; il vostro narratore ricorda la combriccola di africani che nei pomeriggi estivi giocava nel campetto perugino in zona Rimbocchi (testimoniato, assieme ad altri, nella gallery); poi qualcuno fece dei lavori, scavò un grosso buco in mezzo al campo, ammucchiandone la terra a lato, e lasciò poi tutto così. Difficile giocare in un campo con un cratere in mezzo, e quindi quei ragazzi avranno trovato altrove uno spazio idoneo, o più semplicemente avranno rinunciato.

Le ragioni dell’abbandono saranno certamente molteplici e tutte giustificatissime: non ci sono i soldi; non c’è chi ha tempo di occuparsene; serve un qualche permesso, un’idoneità, una messa a norma; la società che lo gestiva non esiste più e non si capisce bene chi ne sia responsabile. Siamo certi che, prese singolarmente, tutte queste storie di abbandono hanno una specifica ragione, umana, comprensibile. E il fatto stesso che ciascuna storia avrà pure una ragione, se considerate tutte assieme appaiono semplicemente deplorevoli. Un indicatore di spreco di denaro, di superficie, di salute, ma anche uno spreco di relazioni sociali, di serenità e di svago. Ci sentiamo di riprendere quanto scritto in un Focus di qualche tempo fa, relativamente ai parchi pubblici: “Tutto questo – scrivevamo a proposito dei parchi – è capitale sociale, un bene prezioso non quantificabile, non misurabile, ma decisamente importante per la vita dei cittadini”. Come i parchi, ugualmente i campi di calcio: luogo di attività fisica, di incontro, di relazione e socialità. Perché non immaginare un piano di recupero? Un piano che dovrebbe partire ora, per sistemare strutture che (sperabilmente a breve, in epoca post-Covid) potrebbero essere restituiti ad associazioni, parrocchie, comunità, e insomma alla cittadinanza.

Ma oltre alla logica razionale del recupero, certamente importante, c’è una questione più sottile e impalpabile che si vuole sottolineare. Questo più generale non vedere il degrado nel suo complesso, che è figlio delle scarse risorse, indubbiamente, ma a noi sembra principalmente frutto – come si scriveva sopra – della cecità che affligge l’uomo urbano: che non vede nulla, che passa distratto, che vive la città come una serie di punti separati da vuoti, e in quei vuoti ci possono essere immondizie come campi di calcio abbandonati, quartieri mostruosi e svincoli allucinanti. Ma quei vuoti apparenti sono l’immagine di un vuoto dentro noi; noi non vediamo (e non interveniamo, e non protestiamo, e non ci attiviamo) perché la città, mentre si disgrega, ci educa all’accettazione di questo deperire; la città muore (lentamente, estremamente lentamente, ma muore inevitabilmente) trascinando con sé l’immaginario dei propri figli.

Claudio Bezzi

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