In memoria di Ingo Maurer, il poeta della luce che ha illuminato il Teatro dei Riuniti di Umbertide

UMBERTIDE – Vi proponiamo parte dell’intervento-ricordo che Diego Zurli ha tenuto a Umbertide, accogliendo l’invito dell’Accademia dei Riuniti, per ricordare la  figura di Ingo Maureril Poeta della Luce – recentemente scomparso a 87 anni. Diego Zurli lo ha fatto ad Umbertide, al Teatro dei Riuniti, proprio perché Maurer è stato il designer che ha progettato e costruito gli apparecchi d’illuminazione del Teatro.

Diego Zurli al Teatro dei Riuniti mentre ricorda Ingo Maurer

“Questa realizzazione – ha esordito Zurli riferendosi all’illuminazione del teatro – rappresenta per me e per altri compagni di avventura dell’epoca una tra le più coinvolgenti e felici esperienze dei miei lontani trascorsi di pubblico amministratore. Erano altri tempi, altri margini di intervento e di libertà concessi a chi si occupava della cosa pubblica, oggi per lo più preclusi,  per cui se qualcuno ti proponeva di affidare ad un artista-designer, ai più sconosciuto, il compito di progettare e realizzare i corpi illuminanti, potevi assumerti la responsabilità di una decisione coraggiosa senza correre il rischio di finire davanti alla Corte dei Conti per danno erariale o peggio ancora di fronte al Procuratore della Repubblica. Le decisioni, come sempre, venivano prese direttamente dal sindaco che al quel tempo era Maurizio Rosi, il quale  ascoltava abbastanza alcuni di noi che aveva scelto come suoi più stretti collaboratori e accettava buoni consigli. 
Ingo Maurer (foto tratta da Il giornale dell’architettura)

Il principale ricordo che ho di Ingo Maurer riguarda  il suo primo approccio con il teatro: si presentò alla guida di un furgone targato Monaco di Baviera pieno di attrezzi insieme ad un paio di assistenti  e alla figlia Claude – attuale amministratore delegato dell’azienda – accompagnata dal fidanzato che era un artista-pittore giapponese.  Preceduto da una qualche aurea di notorietà, tutti noi ci saremmo aspettati  l’arrivo di una persona distinta vestita in modo normale; ed invece dal mezzo scese un signore piuttosto in avanti con gli anni dai capelli bianchi scapigliati che indossava una sgargiante tuta da lavoro e che portava una specie di grandi occhiali da saldatore. Sul momento rimanemmo alquanto interdetti e il personaggio non ci fece una bella impressione. 
Il teatro dei Riuniti di Umbertide

Con piglio decisamente teutonico rivelando peraltro una inaspettata simpatia, ci fece subito capire che non aveva troppo tempo da perdere perché era venuto per iniziare subito il lavoro. Cominciò a esplorare il teatro – prosegue Zurli nella narrazione – accompagnato da un suo collaboratore che filmava  tutto con una cinepresa in formato super8. Al tempo non c’erano ancora i telefonini e neanche il digitale per cui la cosa ci sembrò quantomeno insolita così come quantomeno inusuale apparve la richiesta  di rimanere da solo, seduto per almeno un ora meditando in silenzio con le spalle rivolte al palcoscenico.  La volta successiva si presentò con le idee molto chiare: davanti a uno sparuto  nucleo di osservatori incuriositi e inizialmente alquanto perplessi – tra cui gli architetti del Controstudio che lo avevano contattato, il tecnico comunale Guglielmo Magrini, il sottoscritto e pochi altri –  cominciò a ritagliare con delle grosse forbici della carta stagnola spiegazzata e delle sottili lamiere metalliche abbozzando i prototipi di quelli che, secondo le sue intenzioni, sarebbero dovuti diventare gli apparecchi illuminanti del teatro. Un rapido consulto ci indusse a manifestare tra di noi  qualche preoccupazione: lampade con quelle caratteristiche costruttive, non avrebbero resistito una settimana e soprattutto non avrebbero mai ottenuto il visto dei Vigili del Fuoco e della severissima Commissione Provinciale per il Pubblico Spettacolo.  L’unico che, per ragioni anagrafiche e per l’innata diplomazia, poteva trovare il coraggio di manifestare qualche rispettosa critica a uno come Ingo Maurer era Guglielmo Magrini e per questo  fu prescelto. Ingo Maurer capì al volo e così furono introdotte una serie di modifiche ai prototipi che ne migliorarono notevolmente la solidità, senza per questo rinunciare al senso di leggerezza che probabilmente era alla base dell’idea originaria: tra queste i vetri di protezione sugli oblò che ospitano le lampade azzurre dei palchi (per scongiurare il rischio di rimanere folgorati al contatto dei fili),  la sostituzione della carta stagnola con un materiale più robusto, ecc…  Il problema che sembrò di più difficile soluzione era che gli apparecchi, costruiti in modo artigianale,  non riportavano il marchio delle norme CEI al tempo in vigore in Italia ma che furono tuttavia certificate dal costruttore rispondenti alle ben più rigorose norme DIN (Deutsches Institut für Normung), il celebre istituto tedesco per la standardizzazione. Alla fine anche questo problema fu risolto: le lampade stanno ancora lì dopo oltre trent’anni e, nonostante una evidente quanto apparente  fragilità costruttiva, pur necessitando di qualche opportuno intervento di restauro, non hanno dato troppi problemi.
C’è un ulteriore episodio alquanto curioso che pochi conoscono e che voglio svelarvi: gli amici architetti del Controstudio ci fecero capire che il Maestro – da buon padre di famiglia – avrebbe avuto piacere di vedere coinvolto  nell’operazione anche il futuro genero, il pittore giapponese Atsushi Ogawa, ovviamente gratis. Personalmente, l’idea non mi convinceva molto poiché era totalmente sconosciuto. L’ipotesi ventilata era quella di affrescare l’intradosso del  controsoffitto della platea. Il Sindaco era piuttosto possibilista e si dimostrò assai più coraggioso di me tant’è che rilanciò l’idea proponendo di incaricare dell’opera niente di meno che Alberto Burri che aveva avuto l’occasione di incontrare nel corso di uno dei suoi soggiorni tifernati. Alla fine non se ne fece nulla: il giapponese ripiegò sul controsoffitto del foyer e Burri, a quel tempo impegnato nel Grande Cretto di Gibellina e nel ciclo dei cellotex presentati alla mostra di Venezia e esposti in permanenza agli ex seccatoi del tabacco, non fu interpellato: forse non avrebbe mai accettato, anche perché non eravamo in condizioni di pagarlo, ma resta comunque il rammarico di aver lasciato cadere un’idea brillante che, ove realizzata, avrebbe fatto parlare del teatro e della città nel mondo. Della singolare vicenda racconta, oltre al dipinto del giapponese, un singolare omaggio dipinto in un angolino dell’affresco ove, accanto all’autore rappresentatosi in forma di uccello, fummo ritratti in qualità di committenti alla maniera rinascimentale. Secondo il mio punto di vista, il suo progetto è molto ben riuscito. Un oggetto di design deve avere una sua capacità evocativa, deve raccontare qualcosa di se stesso, del suo autore;  tuttavia, come nel caso degli apparecchi illuminanti del teatro, essendo stati concepiti per uno spazio specifico, doveva soprattutto cogliere ed interpretare lo spirito e i caratteri del luogo al quale era  destinato (…). La scelta – prosegue Zurli – di riproporre tramite l’architettura  l’atmosfera astratta delle favole di Pinocchio o del Soldatino di Piombo, l’immagine ottocentesca e  Risorgimentale fatta di divise sgargianti di arredi e cromie ricche di turchino e oro zecchino che risaltano negli arredi del teatro e nel disegno raffinato delle  luci di Maurer, insieme agli affreschi di Ogawa sull’intradosso del foyer che rimandano alle radici ludiche ed illusionistiche dello spazio teatrale evocando città fantastiche, citazioni classiche, paesaggi bucolici, ecc.,   interpreta con alcuni anni di anticipo lo spirito di quella che sarà la manifestazione della Fratta dell’Ottocento. L’idea, felice ed originale al tempo stesso, di un evento che trae la sua originaria ispirazione e  il suo punto di forza nella città che si fa teatro con molti dei suoi suoi cittadini che per qualche giorno diventano attori;  un evento che, nella sua semplicità non ha la pretesa né l’ambizione di rievocare fatti e vicende storiche per lo più inesistenti, ma le rappresenta re-inventandole con senso di ironia e leggerezza per mezzo della finzione teatrale: un idea certamente da migliorare e purtuttavia da  coltivare scongiurando il rischio dell’”Invenzione della tradizione”, evitando che si trasformi nell’ennesima rievocazione o in una sagra. Sono pertanto convinto che, in modo assolutamente inconsapevole e grazie al geniale contributo di alcune persone, dell’Accademia dei Riuniti e del vecchio e caro  Achille che ne fu il più convinto propugnatore, l’idea-forza che sta alla base della manifestazione nasce almeno in parte da questo luogo, da un teatro immaginato e realizzato con i suoi stucchi i suoi finti ori zecchini a cui contribuisce   la leggerezza, l’ironia   e financo la magia delle luci di Ingo Maurer che,  a distanza di tanti anni, continuano ad illuminarne gli spazi. La conferma della relazione ormai inscindibile  stabilita tra l’opera di Ingo Maurer e questo nostro piccolo teatro, sta nello stesso logo che, non a caso, contiene l’icona del  suo straordinario lampadario centrale”. 
 
Chi è stato Ingo Maurer 
Dopo questo affascinante ricordo pieno peraltro di aneddoti e retroscena interessanti, Diego Zurli si è poi soffermato specificamente sulla vita di Ingo Maurer imprenditore e raffinato designer.
“Ingo Maurer (1932-2019) si è specializzato nella produzione di apparecchi illuminanti. Figlio di un inventore che aveva brevettato una macchina per affumicare i prosciutti, si forma come  tipografo e poi grafico in Svizzera e a Monaco di Baviera dove nel 1960 apre una piccola bottega artigianale oggi divenuta azienda internazionale denominata Ingo Maurer GmbH.
Il linguaggio di Maurer – spiega Zurli – è un mix di innovazione tecnologica,  oggetti “one-off”  pensati e realizzati per produrre  effetti di sorpresa e spaesamento; oggetti ibridi che ironicamente alludono al mondo animale,  che impiegano di materiali poveri ispirati dal minimalismo orientale e ai riferimenti pop, che combinano il prodotto industriale con la manualità artigianale dove è spesso presente l’aspetto ludico ed infantile. 
Diverse sue opere si basano su operazioni  concettuali che appartengono al campo dell’arte come l’assemblaggio e il “ready made”:   oggetti di uso comune scelti da un artista che, senza operare su di essi alcun intervento di carattere estetico, ne afferma il valore con il solo  atto mentale di proporlo come opera d’arte. Vedasi ad esempio la celebre “Ruota di bicicletta” o la “Fontana” (Urinoir) di Marcel Duchamp, il principale esponente della corrente d’avanguardia denominata ”object trouvé”. 
Maurer è stato quindi un autodidatta. Esordisce con la lampada da tavolo “Bulb” concepita come lampadina contenuta dentro un involucro ingigantito in vetro soffiato, anch’esso a forma di lampadina. L’idea nasce dalla considerazione della semplice lampadina quale massima sintesi tra poesia, industria e design”
Poi Diego Zurli passa a fare alcuni esempi.
In “Campari Light”  (foto qui sopra) assembla alcune comuni bottigliette di Campari trasformandole in un lampadario. La bottiglietta, peraltro, è a sua volta un classico del design italiano in quanto ideata dall’artista e pubblicitario  Fortunato Depero che fu uno degli iniziatori del futurismo e firmatario insieme a Gerardo Dottori del Manifesto dell’Areopittura. L’oggetto, intriso di stupefacente ironia, è a sua volta ispirato alle opere di Andy Warhol come quelle che hanno per oggetto i celebri barattoli della  zuppa Campbell. 
“YaYaHo” è un sistema di luci alogeno a basso voltaggio regolabile ispirato dai Mobiles di Alexander Calder. Il gusto ironico e mai imitativo per la citazione dell’opera di esponenti delle avanguardie artistiche del novecento è un tratto piuttosto ricorrente di gran parte del suo lavoro. 
La lampadario Porca miseria

Il lampadario “Porca Miseria”, nato come protesta contro il raffinato mondo del design milanese, dove assembla dei pezzi di porcellana rotti e dove, per sua stessa ammissione, è esplicito il richiamo al  celebre film Zabriskie Point in cui Michelangelo Antonioni – di cui era grande ammiratore – usa il rallentatore nella scena dell’esplosione. Alla presentazione a Milano, il primo visitatore che vide il pezzo esclamò: «Porca Miseria!», da cui il nome del lampadario prodotto in soli cinque esemplari l’anno.
Le “MaMo Nouchies”  appaiono come composizioni  di carta giapponese, drappeggi di luce che hanno forme organiche indefinite che rimandano alle sculture di Constantin Brancusi. C’è poi il lampadario  interattivo “Zettel”  composto  dai messaggi scritti sui fogli bianchi attaccati con le pinzette,  l’”Hearths Attach”….  Il “Flatterby”, un bulbo luminoso attorno cui ronzano dieci modellini di insetti, il “Birdie” ecc. 
Flatterby

Concludo questo ricordo attraverso le sue stesse parole che ci aiutano a comprendere la sua concezione artistica e forse ancor più la sua stessa visione del mondo: «Senza correre rischi, senza impegnarsi con oggetti che non corrispondono esattamente all’idea consolidata di bellezza, le nostre idee non cresceranno e la qualità estetica del nostro lavoro gradualmente si deteriorerà..”. Qualche volta – conclude Zurli – parafrasando la celebre frase “less is more”  che riassume simbolicamente la visione artistica del grande architetto Mies Van Der Rohe,  Ingo Maurer replica  con arguzia ed ironia che a volte “ less taste is more taste”. Una concezione assolutamente  rivoluzionaria che mira a sconvolgere i canoni tradizionali dell’idea di bellezza ai quali siamo stati educati ed abituati ma  che ci stimola a ricercare e a scoprire il bello dove mai avremmo pensato di trovarlo. Perciò  non trovo di meglio che riproporre il commento di  Achille Roselletti in un post: Che la terra ti sia lieve, Ingo. E grazie. Ti ricorderemo, e sarà la tua luce a farlo, ogni volta che accenderemo gli interruttori del teatro”.
Grazie a Diego Zurli per il disegno di copertina realizzato per Vivo Umbria
 

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