Intervista a Leonardo Lidi: “Vedo Zio Vanja e famiglia con il volto irriverente di Gaber e degli Skiantos”

PERUGIA – Su Leonardo Lidi, Nino Marino e lo Stabile dell’Umbria, ci hanno puntato subito e parecchio.  Intendiamoci: non si è trattato di una scommessa. Diplomato nel 2012 come attore alla Scuola dello Stabile di Torino, il  debutto di Lidi sul palcoscenico è stato  con Andrea De Rosa nel Simposio di Platone nel ruolo di Socrate, per poi essere scelto da Valter Malosti per interpretare Amleto.  Altro viatico, nel 2016, Antonio Latella, altro punto di riferimento del Tsu, che lo ha voluto nel ruolo di Agamennone.

Da regista, 2018, debutto alla Biennale di Venezia con “Spettri”, spettacolo vincitore del bando registi under 30. Per poi ricevere il Premio della critica ANCT 2020. Ed è di questa settimana la candidatura come migliore regia all’Ubu 2023. Il rapporto con il Tsu si concretizza di fatto alla Biennale di Venezia con due spettacoli: “ll lampadario” di Caroline Baglioni e “La città morta” da Gabriele D’Annunzio. Da qui il “decollo” nel giugno del 2021 al Festival di Spoleto con “La signorina Julie” di August Strindberg .
Ora il regista 35enne piacentino è nel pieno del suo lavoro su “Trilogia Cechov”. Dopo “Il gabbiano”, ecco  “Zio Vanja”, seconda tappa del progetto  che si concluderà nel 2024 con “Il giardino dei ciliegi”.

Lo spettacolo, prodotto dal TSU in coproduzione con lo Stabile di Torino e con il Festival di Spoleto, è in scena in questi giorni in scena al  Teatro Morlacchi di Perugia, lo sarà fino a domenica 3 dicembre. Tra l’altro oggi, 1 dicembre alle ore 17,30, ci sarà anche Lidi al tradizionale incontro con il pubblico al Morlacchi assieme a tutti gli attori che compongono il cast. Intanto, vi proponiamo questa intervista in cui parliamo di Zio Vanja e, come nostra consuetudine, di altro ancora.
– Ci siamo sentiti all’indomani della notizia con la quale il TSU annunciava la trilogia Cechov. Simpaticamente, mi disse che era un modo di fare una sorta di  corso di recupero dei classici rispetto ai suoi studi. A che punto siamo?
A buon punto, direi… Scherzi a parte, è una bellissima possibilità. Maneggiare per tre anni Cechov è molto emozionante perché ti rendi conto che ti dà delle linee guida su che cosa si può fare con la regia e sull’importanza degli attori. Linee guida anche sulla vita: ti invita a non vivere con troppa muscolarità, di accettare difetti e sconfitte.
– Nelle note di regia di Zio Vanja, parla di senso pratico del teatro. Ovvero?
Ci sono  testi che hanno un’idea politica al loro interno perché sono una presa di posizione rispetto all’importanza dell’attore all’interno della scena.
Con Zio Vanja, una volta decisa la forma, cerchiamo di capire quanto riusciamo ad essere influenti rispetto al pubblico, noi attori; considerato che tutti i personaggi in scena, a parte Astro, sono ininfluenti nella loro vita. Non credono più nella loro forza all’interno della loro casa, della società, della vita stessa.
Astro dice invece no. Noi dobbiamo agire come singoli, dobbiamo considerare ciò che ci circonda, stare attenti al pianeta. E allora viene da chiedersi quanto oggi il teatro riesce ad impattare all’interno della società. Dopo il Covid questa riflessione è ancora più urgente perché durante la pandemia siamo stati messi come ultima categoria da citare, da considerare: eravamo quelli che “ci fanno tanto divertire”.
Ora, visto che non sono un provocatore e mi piace definirmi un costruttore, voglio che questo generi delle riflessioni perché, magari, guardandoci allo specchio, scopriamo che anche noi teatranti possiamo agire in modo migliore.
– Nelle note di regia lei ha scritto che questa strana famiglia cantata da Cechov ha la faccia di Gaber. Cita anche Freak Antoni e gli Skiantos…
Mi piace fare riferimento al mio storico, a ciò che mi diverte, a quella che è la mia educazione musicale per trovare riferimenti anche molto popolari,  comprensibili, perché credo in un teatro divulgativo, che non si chiude in una bolla elitaria di persone molto sapienti.
E quindi studio come nessun altro, come ha detto giustamente lei all’inizio, i classici; ma allo stesso tempo credo nella forza del teatro popolare in senso politico.
Gaber e Freak Antoni rappresentano un periodo dove è stato possibile far sbocciare una forma di irriverenza. Che oggi, forse, non riusciamo neanche più tanto a leggere. Mentre io continuo a pensare che uno dei più grandi cantanti, maestri del ’900, è stato Enzo Jannacci per quanto riguarda l’Italia, e mi rendo conto di quanto ancora oggi sia sottovalutato.

Vorrei, appunto, che Vanja riuscisse ad essere dissacrante, ma perché innamorato della cultura, dell’arte del proprio Paese. E sono talmente innamorato del teatro che riesco a generare della rabbia in me quando lo vedo maltrattato, quando lo vedo violentato, esattamente quella cheverso il pubblico faceva urlare “merda” agli Skiantos; o Gaber, quando canta “La strana famiglia”.

– E’ stata data la notizia dagli organizzatori del Festival di Spoleto che ci sarà una sorta di sua “maratona Cechov”. Di cosa si tratta?
Spoleto ha accolto la prima dei due primi spettacoli su Cechov. L’idea è di fare lo stesso  con “Il giardino dei ciliegi”  e di presentare così al pubblico tutte le pièce insieme.
– Come va con il cast dopo così tanti mesi insieme?
Cechov richiede generosità e  nobiltà d’animo e, quindi, gli attori sono stati selezionati perché bravissimi, ma anche perché disposti a un processo comune.
Quindi predisposti non a pensare solo al proprio talento e al proprio percorso, ma a un processo collettivo che richiede di stare bene insieme, di avere voglia di attraversare l’Italia assieme a questo grande autore.
Per questo c’è stata una scelta molto attenta rispetto agli attori: e, col passare del tempo, ci troviamo sempre meglio.
– Dopo Cechov  cosa bolle nella sua pentola?
A marzo 2024 presenterò per lo Stabile di Torino “Medea”, un testo che propone  visioni del mondo completamente diverse, Oriente e Occidente, l’universo maschile e femminile, elementi che rendono il  racconto attuale e necessario.

Foto: Gianluca Pantaleo

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