La musica proibita dai nazisti, ma composta in clandestinità, riaccende la speranza

C’è anche chi, come Romano Mussolini,  batterista jazz, per amore della musica si mise contro un padre potentissimo come Benito Mussolini che in base ai principi dell’autarchia considerava il jazz un’espressione “deviante”. L’ideologia nazista considerava, al pari dell’Espressionismo tedesco, il jazz arte “degenere” e deviata rispetto alla magniloquenza e all’enfasi wagneriana, tutto Valchirie e miti teutonici che alimentavano a loro volta la “supremazia” presunta della razza ariana. Chi ebbe la sfortuna di nascere nella parte sbagliata, anche se ormai perfettamente inserito nel contesto sociale e civile da generazioni, non ebbe più diritto di parola, tantomeno di musica, prodotta da individui “inferiori” che dovevano essere privati prima di tutto dei loro beni e delle loro ricchezze e quindi annientati, sterminati. Ma la musica eterea e volatile riesce a oltrepassare anche le barriere ideologiche e immonde, feroci e bestiali e se anche nello status di marginalità e minorità è capace di evocare e ricementare identità sfilacciate e soppresse, svilite e umiliate trasformandosi in ritualità collettiva condivisa che inneggia all’alterità di una condizione, antidoto contro la costrizione, i tanti soprusi, la fatica fisica e quella di vivere. E così, come nelle piantagioni di cotone del Sud degli Stati Uniti segregazionisti, gli Spiritual riaccendevano la speranza di un aldilà dove sarebbe stato possibile riscattarsi dallo condizione di schiavismo in cui erano costretti i deportati africani, nei ghetti delle capitali dell’Europa dell’Est, gli ashkenaziti facevano riferimento alla musica come forma di resistenza spirituale, come ponte per rimanere in sintonia con la propria etnia, con le proprie radici. Persino nei lager, anche se in regime di clandestinità, esisteva una fervente attività di composizione creata nell’intento di lasciare una testimonianza reale per le generazioni future. Molto spesso quelle partiture venivano nascoste in nascondigli di fortuna a conoscenza solo di pochi. Solo al termine della guerra ne vennero recuperate alcune, per il resto ci si rivolse alle testimonianze dirette ai sopravvissuti alla “soluzione finale”. Musicisti come Hans Krása si rivolsero soprattutto ai bambini nel lager cecoslovacco di Theresienstadt: I bambini di Terezín trovano in Brundibar un sentimento di resilienza e di rifiuto dell’immondo. Il Requiem di Verdi diventa un inno alla speranza nell’imminente giudizio. Con le leggi razziali in Italia nel 1938, molti musicisti ebrei scelsero l’esilio, ma numerosi furono i soprusi del regime nei confronti di individui che fondamentalmente rimasero increduli rispetto a violenze e intimidazioni contro ogni principio di dignità umana. Ma è a partire dal dopoguerra che la musica visse un momento di sussulto riaffermando il senso della vita contro la morte e quello del bene contro il male. La musica, sia classica che popolare, reintroduce gli elementi per l’elaborazione di una memoria dannata dall’immondo e da quello che per molti ebrei era rimasto l’indicibile. Nel cinema spiccano in questo senso figure come Woody Allen e Nicola Piovani che prima ancora dell’inizio del nuovo millennio e dell’istituzione della Giornata della Memoria, ricollocarono l’infamia delle deportazioni e dello sterminio nel quadro della follia nazista. La Shoah riacquisita centralità in artisti come Leonard Cohen e Bob Dylan. In Italia Luigi Nono soprattutto, ma anche molti altri compositori classici hanno rievocato con la musica il periodo storico più buio che l’umanità ricordi. Guccini, Battiato, De Gregori hanno riecheggiato l’orrore, ma lasciato uno spiraglio al riscatto dell’Uomo.

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