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La narrazione di un amore senile in “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati

PERUGIA – Lei mi parla ancora è l’ultimo film di Pupi Avati disponibile, da pochi giorni, sulla piattaforma Sky (e su Now TV, sempre collegata a Sky). La storia è semplice, quasi minimalista: alla fine della sua lunga vita, il farmacista Nino racconta il suo amore per Rina, appena deceduta dopo un matrimonio durato sessantacinque anni, a un ghostwriter fallito, ingaggiato dalla figlia di Nino per raccogliere le testimonianze di una vita felice e specialmente per aiutare l’anziano padre a elaborare il lutto.

Come accade nei film di Pupi Avati, la sceneggiatura è in gran parte sua, come la produzione e quindi la scelta del cast. E come accade nei film di Pupi Avati tutto sembra scomparire nell’intensità della storia e nella delicatezza con la quale la sa proporre.

Il film non è tecnicamente bello: la sceneggiatura presenta qualche sbavatura e appare “piatta”, almeno secondo gli standard dei film più chiassosi ai quali ci siamo abituati; la fotografia non è particolarmente brillante; l’interpretazione degli attori secondari è appena al livello della sufficienza, salvo Sandrelli e Haber che hanno ruoli minimi. Giganteggia Renato Pozzetto, nel ruolo del vecchio farmacista, e non avevamo dubbi sulla sua bravura, soffocata per anni in cliché comici nell’epoca più tragica della cinematografia italiana.

Ma quello che veramente affascina, ed è la cifra stilistica di Pupi Avati, è la lievità narrativa, la commozione che lui stesso prova nel narrare, la tenerezza e l’amore magistralmente resi da Pozzetto. Quello che importa, in questo Maestro, non è raccontare “una storia” ma trasmettere un’emozione; ecco allora che la sceneggiatura, pur nella sua eccessiva linearità, diventa funzionale al sentimento, avendo rinunciato alla successione di eventi; per esempio il contesto storico e ambientale della coppia in gioventù (anni ’50 dell’alto ferrarese) non è nemmeno abbozzato, e i numerosi flashback appaiono come cartoline appese a una parete, dove importa l’istantanea, la descrizione formale di ciò che vi appare, e non l’analisi strutturale che sì, darebbe spessore ai personaggi e alla Storia (intesa come flusso) ma comprimerebbe inevitabilmente lo struggimento, la passione, il dolore, pure rappresentati nelle vicende narrate. Ma, ancora, le stesse vicende sono solo accennate, sempre a favore del sentimento che devono rappresentare piuttosto che dalla sociologia che porterebbe fuori strada lo spettatore.

Il film non è per tutti. Quell’amore senile, rappresentato anche in contrapposizione al fallimento familiare del ghostwriter, apparirà probabilmente troppo sottile, etereo, forse futile, allo spettatore giovane pervaso da altri sentimenti, la passione, il desiderio. Perché anche in questo caso ogni età dà i suoi frutti, e l’età senile non è affatto avara nell’amore, ma lo intende nella sua tarda stagione della comprensione e della fiducia, della complicità e, soprattutto, dalla memoria condivisa, quella memoria che viene sottolineata, nel film, dalle ultime parole che Nino scambierà col più giovane biografo: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia” (Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò). Occorre avere insomma l’età giusta per apprezzare pienamente il film, o una elevata sensibilità.

Claudio Bezzi

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