La zia Bianca e la torta di panna

Silvia Buitoni
Ogni Natale ha la sua vecchia zia noiosa, quella alla quale nessuno vuole sedere accanto, quella alla quale i bambini fanno linguacce e i grandi evitano come l’influenza.
La mia si chiamava Bianca, era la sorella di mio nonno.
Non si era mai sposata ed era sempre stata un po’ cattivella. Laureata in farmacia, aveva lavorato tutta la vita e non si era mai fatta mancare nulla. Oggi verrebbe definita un’orgogliosa donna single ma allora era soltanto una povera zitella. Per lo meno a dire di mia nonna che proprio non la poteva tollerare.
Me la ricordo per le sue magnifiche frappe, per gli scherzi anche cattivi che noi nipoti le facevamo e perché ogni anno, a Natale, portava qualcosa di entusiasmante.
Quell’anno aveva portato una magnifica torta di panna e meringhe, sicuramente acquistata in qualche famosa pasticceria romana.
La cena era stata squisita e opulenta, come si confà ai natali da Roma in giù. Risotti con scampi e frutti di mare, fritti di pesce e baccalà, salmoni marinati e aragoste in bella vista. Ma tutti e specialmente noi adolescenti con lo stomaco mai abbastanza pieno, avevamo un pensiero fisso: la splendida torta alle meringhe e panna della zia Bianca. Finalmente arriva il momento: si libera la grande tavola, cominciano a portare torroni, tenerelli, marron glacé e un panettone milanese blasonato da ben 8 chili, ma della torta nemmeno l’ombra. Al grido ooooh mi giro e vedo che mia sorella Camilla, allora appena diecenne, si era presa la briga di portarla a tavola. Un piede messo male, un rumore sordo e la torta finisce sulle scale, la panna schizza ovunque, la povera Camilla in lacrime e tutti noi a cercare di salvare il salvabile: a costo di leccarlo dai gradini.
A domani

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