Carla Arconte: “Ucraine, badanti con la sindrome Italia”

PERUGIA – Nadyia è alta e bionda. E’ nata a Kiev ed è arrivata in Italia insieme al marito più di 20 anni fa. E’ un’onicotecnica con un buon giro di clienti, racconta. I figli di 13 e 18 anni fanno sport e vanno a scuola. Italiana ormai a tutti gli effetti, conduceva una vita normale fino a pochi giorni fa. Quel giorno fatidico in cui le sirene hanno iniziato a suonare nella sua terra d’origine. “Ho qui tutta la mia famiglia ma i miei genitori sono a Kiev. Non si sono mai voluti trasferire, nonostante io abbia chiesto loro spesso di farlo. Sono stata più di 10 giorni senza avere loro notizie, poi, pochi giorni fa, un messaggino. Sono ancora sotto terra, ma stanno bene, se così si può dire. Sono ancora vivi per lo meno.  A casa non riusciamo più a dormire, il fratello di mio marito è morto e noi stiamo qui senza sapere cosa fare se non sperare che tutto questo finisca presto.”

 

 

Anche Oksana ha notizie intermittenti da suo marito. Lei vive a Perugia, lavora come badante e nella sua vita si è presa cura di tanti dei nostri anziani. Spedisce i soldi che guadagna nel suo paese dove sono rimasti il marito e i due figli. Ha fatto questa scelta per garantire loro una vita dignitosa e farli studiare ma ora si chiede cosa ne sarà di loro e non riesce nemmeno a parlare.

 

Helena, 45 anni, anche lei in Italia da tempo. E’ arrivata con un diploma da fisioterapista e, negli anni, è riuscita ad aprire un centro estetico tutto suo. Ospiterà delle sue parenti, che sono riuscite a scappare e sono arrivate da poco in Italia.

 

Nadyia, Oksana, Helena, fanno parte della comunità ucraina, una comunità che con le sue 230.000 presenze è la più grande d’Europa (fonte Istat).

Secondo il rapporto sulla Comunità Ucraina in Italia redatto dal Ministero del Lavoro, è netta la prevalenza della componente femminile, pari al 78,8% impegnata in prevalenza in lavori domestici e di cura degli anziani: su 90 mila lavoratori domestici, 60 mila svolgono infatti il ruolo di badanti.

“Badante”, una parola entrata ormai a far parte del nostro linguaggio comune ma con una storia particolare alle spalle. Di origine incerta e dialettale, presente già a fine 800 in Romagna e utilizzata per indicare la cura verso i fratelli o il padre, deriva da badare e significa prendersi cura di qualcuno. Entra nel 2002 nella lista delle parole nuove dell’Accademia della Crusca, viene quindi ufficializzata ma il messaggio che trasmette è sottile e dipende dall’uso che se ne fa.

Molto spesso sminuito, a volte deriso attraverso “battute” e stereotipi che sfociano in un razzismo strisciante e intrinseco, il lavoro di assistenza svolto da queste donne così impegnativo e difficile viene spesso considerato un lavoro di serie B, nonostante riguardi i nostri affetti più cari.

 

Oksana ad esempio vive e si prende cura di un’anziana non autosufficiente di 89 anni. Lavora dal lunedì al sabato, con un solo giorno libero a settimana. La maggior parte del tempo è sola e il sabato sera va a fare le pulizie in un ristorante.

Orari massacranti per un lavoro ancor più massacrante che, stando ai dati dell’Osservatorio Domina, nel nostro paese viene svolto prevalentemente da donne ucraine, seconde solo alle romene per l’impiego in questo ambito.

In uno stato come il nostro che ha ormai delegato a queste donne il ruolo di cura dei propri anziani, il cui numero cresce sempre di più, rimane spesso un lavoro sottopagato e non in regola dai risvolti emotivi a volte drammatici.

 

Se ne parla poco ma tante di queste donne, ucraine e romene in particolare, soffrono di quella che viene detta “sindrome Italia”, un malessere lacerante che riguarda il fatto di prendersi cura dei figli o degli anziani di un estraneo mentre i propri sono lontani. Per l’Associazione donne romene «È una forma di depressione molto profonda e rischiosa che può portare anche al suicidio: colpisce solitamente le donne al ritorno nel loro paese, quando non ritrovano più il loro posto in famiglia».

Una tragedia silenziosa che si affianca a quella degli “orfani bianchi”, i bambini che rimangono a casa, lontani dalle loro madri, costrette per amore a stare lontane.

 

A proposito di questo paradosso e di questa “mancata alleanza” tra donne, come viene definita nel libro a cura di Beatrice Busi dedicato appunto della mancata alleanza tra i movimenti femministi e le organizzazioni delle lavoratrici domestiche, ne abbiamo riflettuto insieme alla storica Carla Arconte. Tra le sue pubblicazioni principali: “Storie di donne a Terni”.

Secondo la Arconte la massiccia diffusione di questo lavoro nasce dall’insieme di due fattori: dalla mancanza o comunque dalla carenza dei servizi sociali e dal fatto che, in generale, ma in particolar modo in Italia, il lavoro di cura è un lavoro delegato alle donne: “le esigenze di una società relativamente benestante, almeno fino a poco tempo fa, come la nostra, si sono incrociate con quelle di un’immigrazione  da parte di paesi come appunto l’Ucraina ma anche il Sud America o le Filippine per cui ora, chi se lo può permettere, assume una persona per svolgere un lavoro al suo posto. Un lavoro indispensabile, quello di cura, alla società, ma sottovalutato già in partenza e considerato scontato, dovuto, gratuito.

Il fatto che queste donne, giustamente, si facciano poi pagare e reclamino i loro diritti, crea anche nelle stesse donne che le pagano, una specie di cortocircuito. Mentre noi dedichiamo molto al miglioramento della nostra posizione, spesso, quando queste persone vogliono crescere, stare meglio, migliorare la propria condizione, è come se lo considerassimo un’arroganza da parte loro. Per questo dico che nel nostro paese c’è un forte atteggiamento colonialista e razzista nei confronti di queste persone che, ad un livello più o meno consapevole, consideriamo “non come noi” e di fatto inferiori. Il fatto che poi queste donne stiano 24 ore al giorno con una persona anziana, spesso malata e tutto lo stress che questo comporta spesso non lo mettiamo in conto”.

Discorso che si può ulteriormente allargare perché, prosegue la Arconte “assistiamo adesso all’ipocrisia profonda che sta avvenendo con lo scoppio della guerra per cui stiamo, e sottolineo giustamente, accogliendo gli ucraini mentre abbiamo per anni respinto e continuiamo a respingere ancora oggi altre persone di etnie diverse che fuggono dai loro paesi per problemi altrettanto gravi.

Inoltre un’altra questione importante è che, soprattutto noi donne che abbiamo usufruito del lavoro delle badanti, ci siamo molto occupate della nostra liberazione sfruttando il lavoro di cura esternalizzato ad altre ma non sono cambiati i rapporti all’interno dei nuclei familiari della nostra società né c’è stata una ridistribuzione dei ruoli”.

 

Una situazione complessa e delicata, riportata alla ribalta dalla guerra in Ucraina, dove non ci sono soluzioni ma di certo sicuramente tanto su cui riflettere.

 

Francesca Verdesca Zain

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