L’Ultima immagine. James Hillman lascia la sua eredità a dieci anni dalla morte

PERUGIA – Là dove si incontrarono Oriente e Occidente, là dove i termini fine e caduta e nuovo inizio conobbero l’individuazione di un senso intenso e pienamente vissuto, là dove l’arte e le arti si incontrarono a definire e ridefinire i paradigmi estetici del guardare al sole o al tramonto, James Hillman, tra i massimi filosofi nel passaggio tra il secolo breve e il nuovo millennio, varcò la soglia del visibile per addentrarsi nel vedere e dunque ridefinire l’immagine che, secondo Jung, suo mentore e massimo riferimento equivale all’anima. Non c’è anima – sosteneva Jung – se non c’è immagine e non c’è immaginazione. Hillman, continuatore e revisore del pensiero junghiano e accompagnato da Silvia Ronchey, docente di Civiltà bizantina all’Università di Romatre, in un intenso dialogo svolto tra Ravenna e Thompson nel Connecticut, luogo di residenza di Hillman, ristabiliscono la distanza tra visibile e immaginato, tra eidos e eidon uscendo e rientrando nella caverna platonica alla base della loro indagine sull’immagine. Ne scaturisce un libro “L’ultima immagine” edito da Rizzoli che rappresenta l’eredità che Hillman lascia ai posteri e summa delle riflessioni e degli approfondimenti che il grande filosofo elabora poco prima di morire il 27 ottobre 2011, dieci anni fa. A dieci anni di distanza, Silvia Ronchey riaccende tutto l’interesse che i precedenti libri di Hillman avevano suscitato, frutto del suo intenso lavoro attorno all’anima, la psyché omerica da cui si avvia per un’indagine a tutto tondo nel corso dei secoli sino ad arrivare ai nostri giorni e a quella che definirà frantumazione del nostro sentire e percepire, del nostro relazionarci al mondo. Quelle riportate nel libro sono dunque il testamento e ultime parole di Hillman che dopo aver passato lunghi anni a indicarci il dualismo aristotelico degli opposti alla base della cultura occidentale, individua nella coniunctio oppositorum e nell’alchemico solve et coagula la sintesi del suo pensiero. Che è un “vedere” e immaginare oltre. Là dove la complementarità tra gli opposti si manifesta e dove la zona tra sonno e veglia dei Sufi ispira la visione, negli interstizi del disvelamento. Tra i paragrafi del libro si avverte lo stato di tensione, lenita dalla serenità dello studioso che, gravemente malato, sta affrontando l’idea di morte. Da questo stato della consapevolezza della fine, ma anche – come sottolinea di un nuovo inizio – emergono due principi dei processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Le cose che si separano si sciolgono e perdono la loro capacità di definirsi. La coagulazione è l’esatto posto e Hillman indica in essa il processo che sta attraversando al termine della sua vita. E a Ravenna ad esempio scopre il sentirsi pagani, ma non nel senso di adepti di una setta, quanto piuttosto nel senso della grande lungimiranza dell’annessione e dell’inclusione che li caratterizzava e di quanto queste siano alla base di un’interpretazione errata che voleva i pagani contrapposti ai cristiani. Hillman parte dall’idea che invece ad avere paura dei sogni e quindi dell’immaginazione erano proprio i cristiani che riconducevano tutto alla mediazione esclusiva di Cristo e afferma: “Questo è il paganesimo, la pluralità contro l’esclusività. E’ su questa pluralità che passa dal platonismo antico e rinascimentale sino all’islam sufi di Corbin che Hillman costruisce l’architettura dell’anima, in quel senso di inappartenenza e di tolleranza contro ogni fondamentalismo. Il libro è comprensivo di due diverse fasi della vita del filosofo: la prima è riferita al 2008, nello stesso mese e nello stesso anno del crollo di Wall Street e ispirato dall’osservazione e dall’indagine sui mosaici di Ravenna nel 2008, il secondo nel 2011 nella fase terminale della malattia che lo condurrà alla morte e che lo scavo interiore che opera su se stesso indicherà a tutti di fermare lo sguardo per cercare dentro ogni immagine l’ultima immagine. Così come tutti poeti fanno e hanno fatto. Ma c’è un passaggio nel libro che partendo dall’ossessione degli opposti dell’Occidente, arriva alla spiegazione geopolitica di quanto è successo nell’Est europeo ad inizio secolo. La coabitazione bizantina durata cinquecento se non settecento anni improvvisamente si è spezzata. “Anche di più – aggiunge Silvia Ronchey – duemila anni, visto che risale all’impero romano, prolungato in quello bizantino, che alla sua caduta si divide in due parti. L’impero russo e quello ottomano. E in quest’ultimo la coabitazione prosegue, in definitiva fino al 1924. Alla fine dello stesso secolo con la caduta del muro di Berlino, nel secondo troncone, quello zarista e poi sovietico, che si percepiva come  l’ultimo erede di Bisanzio ed è esplosa la frammentazione, la frammentazione etnica. La conseguenza materiale – conclude Silvia Ronchey all’inizio e alla fine del Novecento dei due imperi in cui si era diviso l’impero romano-bizantino, è stata percepita qualche anno dopo. Il che spiega il problema principale dell’inizio del terzo millennio. Così l’umanità continua a voltare le spalle all’Est e a dirigersi verso Ovest con il sole alle spalle. “Lasciando indietro tutto il resto e soprattutto il punto di vista immaginale, il trovare casa, riscoprire la nostra terra. O la nostra psiche. L’anima”.

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