Spoleto, alla Sala Pegasus tutto il dramma di “Selfie”

SPOLETO – “Ho perso un figlio di 16 anni senza un perché“, è il 16 ottobre 2018 quando Gianni Bifolco, padre di Davide, pronuncia queste parole. È il giorno in cui i giudici della Corte d’Appello di Napoli dimezzano la pena da quattro a due anni (e poi sospesa) al carabiniere Gianni Macchiarolo che uccise a colpi di pistola il figlio, Davide, nel 2014. Davide Bifolco perde la vita in un inseguimento, nel Rione Traiano, perché lo scambiano per un latitante della camorra anche se si scoprirà che lui con la malavita non aveva mai avuto niente a che vedere; aveva 16 anni e il suo destino è stato deciso da altri.

La locandina del film

Ieri sera, 5 giugno, a Spoleto alla Sala Pegasus è stato proiettato il docu-film “Selfie”, da poco presentato nella sezione ‘Panorama’ al Festival di Berlino, prodotto da Arte France e Magneto e patrocinato da Amnesty International. Il regista Agostino Ferrente che lo ha scritto e diretto era in sala e ha spiegato quale fosse stata la sua indignazione per come la morte di Davide era stata trattata, in primis dalla gogna mediatica, e quale fosse il suo obiettivo nel raccontare non solo la storia specifica di quel Davide Bifolco, ma la storia dei tanti Davide Bifolco che nel Rione Traiano di Napoli ancora ci vivono e il cui destino è spesso predeterminato.
Il regista Agostino Ferrente

Selfie quindi parte da loro, da questi ragazzi, due sedicenni in particolare: per Alessandro e Pietro Selfie rappresenta un autoritratto.
[..] sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura.
Alessandro non ricorda bene i versi de L’infinito di Leopardi, ma sa cosa quei versi significano per lui che ha lasciato la scuola dell’obbligo e ha iniziato a lavorare in un bar, “porto il caffè, faccio un lavoro onesto e pulito” dice riflesso nello specchio del telefono. Lo scopo del regista era infatti proprio quello di mostrare al pubblico ciò che c’è dietro e intorno a questi ragazzi, mentre vivono una vita in cerca di normalità perché “il luogo in cui si nasce e si vive non può costituire una discriminante” come ha sostenuto Barbara Curti rappresentante di Amnesty presente in sala, non riuscendo paradossalmente a vedere ciò che c’è davanti e ciò che ci potrebbe essere al di fuori.
Il realismo narrato nel documentario è vero e si fonda sull’amicizia di Pietro e di Alessandro che in qualche modo “fa da scudo alle devianze potenziali” commenta Ferrente. In questa “drammaturgia sul campo” i protagonisti sono soggetto e oggetto della storia che pur in un quartiere impregnato da “un clima di lutto e ingiustizia” per quanto avvenuto a Davide, tentano di portare avanti le loro vite dal “lato giusto”. Consapevoli delle loro esistenze, a tratti si ricordano di avere 16 anni e non riescono a trattenere i sogni, come quello di vivere un giorno a Posillipo, il quartiere bene di Napoli, tornare a scuola, oppure riuscire a dare un futuro migliore ai figli. Un domani, chissà, almeno i figli. Alcune ragazze davanti alla telecamera del cellulare dicono di cercare l’amore, anche se può essergli sottratto dal carcere in cui i futuri mariti si ritroverebbero detenuti. L’occhio fotografico e meccanico cattura in loro uno sguardo spento.
La frammentarietà della narrazione permette di liberare nel pubblico la riflessione, cucita nelle immagini dalla colonna sonora, musiche originali di Andrea Pesce e Cristiano De Fabritiis; menzione per il XIII Preludio di Nino Rota, che è sempre presente ed è il filtro attraverso cui le loro vicende umane si compiono.
Pietro vorrebbe fare il parrucchiere, suo padre è orgoglioso di lui e non fatica ad ammettere quanto sia importante il ruolo della scuola soprattutto per ragazzi che vivono riversati in un disagio sociale che alla fine quasi sembra spronarli a delinquere. Non riuscendo a discernere il bene dal male non sembra possibile biasimare quei soldati, quei manovali della camorra con i loro soldi facili che spacciando droga nelle piazze prima o poi verranno uccisi o arrestati.
Per questo Ferrente dà in mano il telefono ad Alessandro, Pietro e ad altri che interverranno durante le scene, seguendoli passo dopo passo. Non basta più mettersi nei loro panni, è a loro che bisogna dare la parola.
 

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